Ho davanti a me il catalogo della mostra di Vincenzo Agnetti, Oltre il linguaggio, inaugurata a Milano nella nuova sede della galleria Osart in sinergia con l’Archivio Vincenzo Agnetti di Milano.
Neanche inizio a leggere i testi di Bruno Corà e di Daniela Palazzoli, che il mio occhio si fissa su quel titolo e i miei pensieri iniziano a fare scorribande nei territori della mente: giusto, mi chiedo, cosa c’è oltre il linguaggio?
Chissà se Agnetti avrà letto il libro impossibile di quel filosofo austriaco un po’ border line, Ludwig Wittgenstein, che nel Tractatus logico-philosophicus, scritto al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, si proponeva nientemeno che scarnificare il linguaggio per mostrarcene l’essenza nuda e cruda?
A proposito del linguaggio e del suo oltre, quel filosofo che volle costruire aerei e invece fece il giardiniere, il maestro elementare, l’architetto e il docente universitario con un manipolo di studenti fatti accomodare su sedie a sdraio, scriveva nel suddetto Tractatus frasi lapidarie come questa: “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”.
Per lui, oltre il linguaggio verofunzionale (nel senso, una frase o è vera o è falsa) dei fatti duri e puri della realtà tangibile c’era solo il nonsense: chissà cosa c’era, invece, per Vincenzo Agnetti?
Forse la seconda verità “buttata fuori” dalla sua Macchina drogata, quella calcolatrice Olivetti su cui nel 1967 sostituì i tasti dei numeri con le lettere, in modo che tutte le parole risultassero di supporto a quella che lui chiamava un’operazione di critica del linguaggio -e forse non è inutile aggiungere che sempre Wittgenstein non mancava di insistere sulla sua concezione della filosofia come critica del linguaggio.
Amico di Azimut(il gruppo artistico di Enrico Castellani, Agostino Bonalumi e Piero Manzoni) e collaboratore di Azimuth (la rivista), Vincenzo Agnetti strinse legami anche con Colombo, Scheggi e Parmiggiani ma senza mai fare veramente “gruppo” ed espose a Milano con la Galleria Blu, con Alessandra Castelli e con Franco Toselli, mentre oltreoceano fu Ileana Sonnabend a fargli la mostra. Venne sostenuto da critici come Pierre Restany e Achille Bonito Oliva, espose a Roma da Cannaviello, a New York da Feldman, a Gerusalemme all’Israel Museum e fece quattro Biennali di Venezia, Documenta di Kassel, Quadriennale di Roma e Biennale di San Paolo.
Ora, a 36 anni dalla scomparsa (mancò nel 1981 a causa di un’emorragia cerebrale ed era nel pieno dell’attività artistica) e in un clima culturale particolarmente favorevole (ricordiamo la mostra dello scorso anno, sempre a Milano), lo ritroviamo nella nuovissima sede della galleria Osart, un magnifico spazio espositivo di cinque vetrine che si affacciano direttamente sulla main street di Milangeles, in una mostra che offre molto più di un assaggio delle OperAzioni concettuali messe in atto nel corso di una ahimè non lunga esistenza: il “teatro statico” di Progetto per un Amleto politico del 1975 (e qui pensiamo a un altro grande, il drammaturgo Carmelo Bene col suo Un Amleto di meno) e Discorso N. 5 (1974), opere che, parola di Agnetti, «costituiscono gli ingranaggi di un dispositivo innescato per destituire di significato i segni stessi utilizzati» (e di rimando il succitato Wittgenstein diceva che «l’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi»).
E infatti Vincenzo Agnetti scardinò di par suo il linguaggio traducendolo nella fissità e sussistenza dei numeri (nella serie Progetto per un Amleto politico le opere sono composte dalle bandiere delle nazioni esistenti affiancate da sequenze numeriche che traducono il linguaggio di quelle nazioni) e nella ricorsività della sua celebre Autotelefonata (1974), con una sequenza di piccole fototessere che raffigurano l’artista nell’atto di telefonare a se stesso, circondate dalla reiterazione della scritta “yes”, come quando si dice “sì, sì” all’interlocutore senza ascoltare per davvero quel che dice.
Queste e numerose altre opere storiche, come l’installazione Progetto panteistico (1973), Free-hand photograph (1974), Frammento di tavola di Dario (1973) e la documentazione della celeberrima performance In allegato vi trasmetto un audiotape della durata di 30 minuti (1973, a Milano al Teatro San Fedele e beato chi c’era), testimoniano una produzione d’arte che fu, come diremmo noi oggi, “sempre sul pezzo” e che solo il destino volle interrompere.
Un’informazione di servizio: nella nuova sede della galleria Osart in corso Plebisciti 12 è possibile fare una full immersion nella ricca documentazione cartacea d’epoca messa a disposizione dei visitatori, perché l’opera di Agnetti va non solo guardata ma anche letta: perché qui, sulla pagine di cataloghi e libri, le parole, anche quelle dirette dell’artista, non vanno oltre il linguaggio e sono quindi strumento utilissimo per un approfondimento della sua opera.
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