ARTICOLO PUBBLICATO SU IL GIORNALE OFF
“Ci sono degli elementi che rendono il lavoro di Agnetti oggi davvero interessante e accattivante sotto certi punti di vista. Si rifletteva prima come certe opere, anche molto concettuali, mantengano una grande freschezza proprio perché ci mettono di fronte al rapporto con significati universali che oggi assumono magari prospettive diverse”. Così Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano, a proposito di Agnetti. A cent’anni da adesso, la mostra antologica curata da Marco Meneguzzo in collaborazione con l’Archivio Vincenzo Agnetti. Forse stiamo assistendo a una sorta di “rinascenza” agnettiana, dal momento che nel breve volgere di tempo (un anno, un anno e mezzo) ancora una volta Milano dedica un’importante mostra a Vincenzo Agnetti (1926-1981), l’artista “concettuale” che ha “destrutturato” il verbo in immagini. Operò più o meno a latere rispetto agli esiti italiani della poesia visiva (Ugo Carrega, Giuseppe Chiari, Eugenio Carmi et alia) mantenendo una posizione autonoma, distinta e distante e forse unica -come unico fu un altro grande, Gino De Dominicis.
Fino al 24 settembre a Palazzo Reale i non pochi turisti, studiosi e operatori del settore che passeranno per Milano potranno visitare più di cento opere, realizzate fra il 1967 e il 1981, molte già viste in occasione delle precedenti rassegne dedicate al grande artista e altre, forse, “inedite” per chi non ha ancora avuto modo di guardare in profondità una produzione artistica che raramente viene messa a disposizione dei “normali” fruitori di mostre (certo, l’Archivio Vincenzo Agnetti è un luogo aperto a tutti, ma chi già si “vergogna” a varcare la soglia di una galleria d’arte con ogni probabilità avrà ancor più problemi ad accedere alla suddetta associazione).
Chi scrive, per esempio, è molto soddisfatto per aver potuto ammirare alcune bellissime carte fotografiche “graffiate” -le cosiddette Photo-Graffie– prodotte nell’ultimisssimo scorcio di vita di Vincenzo Agnetti e straordinariamente affini, almeno per il suddetto scrivente, a certe sperimentazioni art nouveau e simboliste.
Nella grande rassegna a Palazzo Reale c’è tutto Agnetti, l’ Autotelefonata e la Macchina Drogata (la calcolatrice Divisumma 14 Olivetti con le lettere dell’alfabeto al posto dei numeri), i “feltri” (Quando mi vidi non c’ero) e le bacheliti incise (gli Assiomi) e le sessanta bandiere di tutte le nazioni del mondo (l’Amleto Politico, quella che noi oggi chiameremmo installazione, cui è stata dedicata un’intera stanza di Palazzo Reale), tutte opere messe a disposizione dall’ Archivio Vincenzo Agnetti, da collezioni private e da gallerie.
Una peculiarità di questa antologica (che segue alla rassegna dedicata, sempre da Palazzo Reale, a un altro grande artista, Piero Manzoni) è l’indicazione, sia pure non centrale per precisa scelta curatoriale, degli innegabili esiti politici della produzione di Vincenzo Agnetti: non semplice e non solamente “situazionismo” linguistico, la sua estetizzazione del linguistico non sense con la conseguente creazione di paradossi visuali e concettuali era, anche se non soprattutto, una critica feroce della fallacia del pervasivo e ingannevole potere politico (non dimentichiamo che visse in pieno i disordinatissimi anni Settanta), come è ben chiaro dall’esposizione a parete di alcune sue dichiarazioni “metateoriche” come chiavi esplicative del suo stesso lavoro, esplicitate di suo pugno. Emblematico è il titolo di un’opera del 1971, della serie degli Assiomi: Il potere usa la TAUTOLOGIA come parametro convincente e la CONTRADDIZIONE come parametro stimolante. Tu chiamale “sentenze”, se vuoi.
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