«Qualcuno dirà che non esiste più, con l’attuale inflazione, spazio culturale per un giornale d’arte. Eppure, malgrado l’imperversare (spesso inverecondo) di fogli e riviste, noi crediamo che un giornale come Kritika debba colmare un vuoto sempre esistito nel terreno artistico italiano.»
Sostituite Kritika con Flash. Sono le prime righe dell’editoriale vergato da Giancarlo Politi sul numero 1 di Flash Art, Giugno 1967, lire duecento. Anzi, Flash e basta, ‘chè all’epoca si chiamava così.
Lungi da noi l’attitudine velleitaria a scimmiottare epigoni culturali che non hanno ancora fatto il proprio tempo (per quanto mi riguarda, Flash Art è l’unica pubblicazione degna del settore, almeno sul territorio nazionale. E io, Giancarlo Politi, manco lo conosco).
Non vi sarebbe ragione di competere con modelli già esistenti, dal momento che il brodo di coltura in cui fluttua Kritika è essenzialmente diverso.
Ma lo dicevamo anche l’altra volta: si vuol colmare la lacuna del pensiero critico, in quest’epoca contrassegnata dalla penuria di pecunia e dalla crisi della critica.
Benedetta sia la crisi, allora.
Un momento storico, anche se con la “s” minuscola, in cui i prodromi del cambiamento sono in via di apparizione: è in atto il salto generazionale della critica e della cura (m’autocito in modo impenitente e me ne compiaccio, anche Enzo Biagi si ripeteva sempre).
Non vogliamo turlupinar nessuno, la giovane età di codesta ventura editoriale poteva giustificare gli scaracchi degl’inizi. Né coprir di contumelie vecchi tromboni in fin del conto inventati da noi stessi.
Siamo nani cresciuti sulle spalle dei giganti (questa è l’ultima, giurin giuretta) e non vorremmo stare anche su altre parti invereconde del loro corpo.
Insomma, non rompeteci la spalle e fateci passare. È il nostro momento dialettico, come per la Filosofia rispetto alla morte dell’Arte in Hegel. Anche se può sembrare fuori moda, le condizioni della cultura lo permettono.
E, per restare in tema di considerazioni inattuali, quale argomento più inattuale dell’iconoclastia?
Un rovesciamento concettuale dell’improba fatica consegnata ai posteri dal Ripa, quel Cesare misterioso e schivo vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento a Siena e redattore del mastodontico Iconologia (Iconologia overo Descrittione Dell’imagini Universali cavate dall’Antichità et da altri luoghi, per amor di filologia). Nonché ispiratore del sommo Erwin Panofsky, “inventore” dell’iconologia moderna col suo celeberrimo Il significato nelle arti visive.
Perché dedicare questo numero monografico di Kritika all’iconoclastia? Ma perché ci pare che le condizioni attuali della cultura visuale siano rette da una sovrastruttura ideologica, non necessariamente da intendersi nel senso deteriore del termine ossia marxiano, ma certamente caratterizzata da una cappa d’ineffabilità che tradisce la verità dell’attuale stato di cose.
Mi spiego meglio. Anzi, lo spiega meglio il Flavio Arensi nel testo che leggerete più avanti (Iconoclastia alla rovescia) dove, tramite un accostamento fra parola e immagine, vengono rovesciati i termini di questioni filosoficamente rilevanti come il fallibilismo popperiano (cartina di tornasole dell’intrapresa scientifica all’accostamento alla verità) e l’estetica come forma del sapere sensibile: immagini nude e falsificabili da un lato e immagini orientate alla persuasione e all’opinione dall’altro. Immagini puramente estetiche che sono quanto di più “nudo” e lontano dalla verità si possa concepire (e anche il termine “nudo”, solitamente associato alla verità, viene qui utilizzato piuttosto per riferirsi alla sua negazione).
Terminus ad quem per mezzo del quale realizzare un’iconoclastia alla rovescia, in cui è l’immagine a liberarsi del suo usurpatore, ponendo il ruolo della critica, una volta liberata dalle sovrastrutture ideologiche, in una condizione estremamente feconda.
Pensate all’immagine degli aerei che sventrano le Twin Towers, la cui affabilità è la loro stessa potenza iconografica, tale da aver segnato, nel senso non figurato dell’espressione, lo spartiacque fra due ere politico/culturali (culturali, perché quando i mozzorecchi antiatlantici minacciano il satana americano – e noi con lui – minacciano con ciò stesso una non piccola parte della civiltà).
Immagini non dure ma «stupide», come le definisce Aldo Runfola nel bel testo redatto per Kritika, che «parlano lo stesso banale omicida linguaggio su cui altri hanno puntato il dito a proposito della ferocia nazista, prima, o dell’idiozia nei comunicati delle Brigate Rosse, poi, da Hannah Arendt a Leonardo Sciascia».
Un’affabilità iconologica con cui l’attuale condizione della cultura visuale ha raggiunto lo Zenith: nessuna parola (la parola ora è diventata ineffabile), solo un’immagine, l’aereo che entra nelle Twin Towers, l’uomo che si getta nel vuoto immortalato da Richard Drew. Ciò che il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen ebbe l’ardire di definire «la più grande opera d’arte del mondo». E che la nostra Silvia Bottani, più sobriamente, trasforma nell’oggetto delle riflessioni sulla «cupidigia del visibile», nella congerie delle «iconoclastie» che caratterizzano l’epoca attuale.
Ecco cosa significa esser «fedeli al presente», come diceva il compianto Luciano Inga Pin.
Ma i termini della questione non sono univoci: se è vero che occorre liberar l’immagine dal suo usurpatore per lasciare spazio a una critica rinnovata in una cultura visuale rinnovata, non è men vero che occorre nutrirsi del dubbio scettico se non si vuol passare come dogmatici: per questo motivo ci si chiede se in fin del conto vi sia davvero l’urgenza di un po’ di sana iconoclastia.
Forse l’attuale condizione della cultura visuale è il naturale sviluppo dello Spirito: sai mai che alla sua negazione possa subentrare una sintesi che la superi conservando quanto di buono ha prodotto.
In ogni caso, noi ci siamo. E abbiamo realizzato questo terzo numero di Kritika dedicandolo all’iconoclastia con dovizia paradossale d’immagine. Constatando amaramente che, non essendo ancora bravi come Flash Art, a noi Damien Hirst i crediti fotografici li fa pagare (e sono d’accordo con lui: pecunia non olet). Al quale, anziché con le parole («We don’t give a fuck», mi sarebbe piaciuto rispondergli), abbiamo replicato col silenzio.
Perché, come mi disse il nostro Editor in Chief, «pubblicare un articolo su Damien Hirst senza immagini è un’operazione iconoclasta che condivido, e non solo per ragioni economiche».
No comments