TUTTI A TAVOLA!

0 Posted by - May 15, 2009 - Approfondimenti

Kritika onpaper # 0 – Milano – 22 | 05 | 2009

 

Dopo l’abbuffata, un altro pasto. Poi un altro. E un altro ancora. Fino a scoppiare. E dei piatti da lavare si occupano Bertozzi e Casoni. Mica pizza e fichi, qui si parla di spazzatura d’artista (warning!)

Quattro (apparentemente) rispettabili amici fuggono da un’opprimente quotidianità chiudendosi in una splendida villa e ordinando uno sproposito di ricercate carni e cibarie. Le giornate oziose sono scandite dai lenti ritmi di uno dei più antichi piaceri dell’uomo: il “mangiare”, nell’accezione più completa del termine. Cucinare complesse portate, allestire eleganti simposi, assaporare cibi, masticare, ingoiare e voracemente ricominciare daccapo. Un elogio ai succulenti banchetti classici, dionisiaci, traversati da fiumi di vino e accompagnati da incontrollabili parentesi orgiastiche, qui consumate con seducenti prostitute ospiti. Ma l’aspetto voluttuoso del rito conviviale è presto soffocato da quel crescente desiderio divoratore e distruttore che il ritmo accelerato e aggressivo del “mangiare” cela. Riempire il vuoto di stomaco come riempire quel vuoto interiore che non trova sazietà, quel senso di noia e di insoddisfazione, caratteristiche della condizione dell’uomo moderno che vengono esasperate nei quattro personaggi affaccendati in una bulimica abbuffata con il proposito di scoppiare, morendo soffocati di piacere e disperazione. “Mangiare” si tramuta da necessità per sopravvivere a veicolo di morte. Quando La Grande Abbuffata, pellicola di Marco Ferreri, fu presentata al Festival di Cannes del 1973 suscitò fastidio nei presenti. La trovarono ripugnante. E si capisce. Quattro gentiluomini impegnati a ingozzarsi e a scoparsi tre puttane e una maestrina, che infine si dimostra la più perversa di tutte, accoppiandosi a turno con tutti loro. E water che scoppiano inondando di merda l’elegante camera da letto cinese. Ma era davvero questo a turbare l’élite di benpensanti presenti alla prima del film? O forse era quell’inconsistenza e mancanza di senso implicito nelle cose e nella vita, suggeritoci abilmente dalla pellicola? Uno alla volta i personaggi vengono meno, lasciando un profondo silenzio e senso di vuoto nei compagni, che comunque continuano nella loro missione: mangiare per morire. L’obiettivo annichilisce il dolore, come un anestetico. Quello che realmente resta di questi quattro (apparentemente) rispettabili gentiluomini sono gli avanzi dei loro ricchi banchetti.

No, non è rilevante che nel film appaiano eleganti architetture cibarie avanzate, allestite seguendo le più severe regole compositive di nature morte pittoriche (roba da accanimento formalista) che tempestano la storia dell’arte. I loro avanzi sparsi nei piatti, in caotici e casuali accostamenti, sono le tracce concrete che rimangono del vissuto. Il consumato, il rifiuto, lo scarto sono l’inevitabile destino della nostra azione sul mondo. Il sottratto all’oggetto, o alimento originario, lascia il nostro segno su ciò che rimane dell’originale. Siamo soliti passare la nostra vita pensando che per lasciare qualcosa di noi al mondo sia necessario “aggiungere”, quando spesso non ci rendiamo conto che l’azione sul mondo è una forma di erosione trasformante attraverso piccoli e semplici gesti.

Credo che proprio degli avanzi del pasto della morte de La Grande Abbuffata ci parlino Bertozzi e Casoni (Giampaolo Bertozzi, Borgo Tossignano, Bologna, 1957; Stefano Dalmonte Casoni, Lugo di Romagna, Ravenna, 1961. Vivono a Imola e Bologna) nelle loro sparecchiature di tavole da pranzo, iperrealistiche composizioni catastrofiche realizzate in sperimentali leghe ceramiche e di materiali di derivazione industriale. Le pile di piatti sono popolate da alimenti consumati o capitati per chissà quale motivo a tavola, così come altri oggetti dissonanti che creano sconcerto e disorientamento. Ogni cena, a cui partecipano numerosi invitati, prende pieghe inconsuete, talvolta originali, passando per svariati argomenti “in-tavolati” e più o meno concatenati. L’assemblaggio caotico degli artisti rappresenta la storia di una cena, come un microscopico residuo di storia di vita che, come prima detto, è la traccia, l’incisione dell’uomo sulla scorza dura del mondo.

E poniamoci un problema di nodale importanza: l’umanità, che solca questa solida superficie, cosa lascia di valore ai posteri? Cosa lascia di rappresentativo? Bertozzi e Casoni andrebbero beffandosi di chi risponderebbe: “Michelangelo, Leonardo, Raffaello. Che grandi geni. Sono fiero delle conquiste del genio umano!”. Sì perché loro due, affermati artisti da Olimpo degli Dei, ci piazzano davanti agli occhi l’eccellente e sublime arte, pregevolissimo residuo dell’azione delle umane genti: un ammasso di sofisticata spazzatura. E se ne parlò molto di rifiuti, iniziando sempre prima di quanto sia solito ipotizzare: fin dal primo decennio del Novecento, tra Picasso e i Futuristi, impegnati a rovistare in chissà quale cassetto (o cassonetto) abbandonato dalla memoria.

Prendiamo Paris-Sudan (1921) di Filippo Tommaso Marinetti, un inaspettato collage su cartone di cianfrusaglie varie. E da quel momento in poi la poetica del rifiuto e del materiale povero e quotidiano nell’arte non si arrestò più. Molti artisti scelsero di intraprendere questa via e ne balza subito all’occhio l’intento provocatorio, mirato all’esposizione di quel volto nascosto della società consumistica che rese i rifiuti soggetto privilegiato, come segno residuo dell’attività umana intenta nella sua azione consumistica. Il rifiuto si fa oggetto di culto. Prendere lo scarto e ricollocarlo, compiendo un ready-made, esprime la volontà di riportarlo in vita conferendogli un nuovo status sociale, mettendo in evidenza il suo significato implicito, senza negare la sua vile natura.

Come nel Paesaggio (1957-1958) di Enrico Cattaneo che cela sarcasmo e apre a nuove possibili vedute artistiche. O nell’Assemblage (1960) di vecchi indumenti sporchi e sbiaditi, tramutati da Gérard Deschampes in una prestigiosa composizione informale di pezze usurate. Il rifiuto porta tracce spontanee, non meditate, non studiate; non è come l’opera dell’artista, con tutte le pretese che essa porta con sé. L’artista studia le sue composizioni, le medita, le modifica per arrivare alla verità di bellezza. Il rifiuto invece è lì, inerme, non chiede nulla, non esorta alla sua venerazione, parla solo del gesto inconscio dell’uomo su di esso, senza macchia, sincero come una fotografia rubata. E forse è proprio questa loro sincerità che li ha resi oggetto d’idolatria artistica.

A questo punto della storia dell’arte, Bertozzi e Casoni, cosa aggiungono? Cosa celano nelle loro ceramiche assemblate di bizzarri rifiuti di cene surrealiste? La ceramica, in quanto tradizionale tecnica artistica, utilizzata in modo realistico, mira a un’imitazione del vero, quindi potremmo dire che con la loro serie compiono una diversa interpretazione del rifiuto, di quel rimasuglio che noi stessi lasciamo al mondo, trasmutandolo, elevandolo e fissandolo nel recinto dell’arte, conferendogli una patina aurea. Il loro è un giocoso passo al contrario: non portano l’oggetto-rifiuto nel recinto dell’arte, ma aprono all’arte i cancelli delle discariche, creando rifiuti di prestigio con la ceramica, una sorta di surrogato verosimigliante. Lussuose, ma troppo grottesche per provenire da un Pranzo di Babette, queste tavole sparecchiate sono all’altezza di quelle opulente cene dell’immaginario ferreriano, memorie di un pasto sempre incompleto e in tensione verso una sazietà che non troverà mai compimento, se non nella morte.

Nila Shabnam Bonetti è critico d’arte e presidente di Laboratorio Alchemico. Nasce a Milano nel 1980 da padre italiano e madre iraniana. Si laurea nel dicembre 2007 in Conservazione dei Beni Culturali, Università degli Studi di Milano, con tesi sull’organizzazione di una mostra documentaria. Ha collaborato, curato e organizzato diverse mostre e scritto per Artribune, KritikaOnline, Lobodilattice, Equipèco e Arsprima.

 

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