A TU PER TU CON GIOVANNI MANZONI

1 Posted by - August 12, 2016 - Interviste

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INTERVISTA SU IL GIORNALE OFF

Domenica d’agosto….anzi no. Quel pomeriggio di un giorno da cani….nemmeno. Un giorno qualsiasi di agosto a Milangeles sull’imbrunire: quella che doveva essere un’intervista si è trasformata in un dialogo in cui la coerenza lascia un po’ a desiderare (nel senso, si è fatto un po’ come cazzo ci pare). Ma, diversamente dalle interviste con la storia di Oriana Fallaci, quello che segue non è un tentativo di governare il fiume di parole in piena di un intervistato eccellente tendente al monologo, bensì il conversario di un critico e di un artista che a Milangeles negli ultimi otto anni ne hanno viste e ne hanno fatte, altro che il sodalizio artistico di Renè Ricard e Basquiat.

Sono nello studio milanese di Giovanni Manzoni, che i miei piccoli lettori conoscono bene. Ora, potrei rimembrare gli anni vissuti pericolosamente insieme, dalla prima collettiva (lui portò un enorme telo di un metro e mezzo per due a disegno e caffè e lo appese alle finestre di un palazzo della Milano bene: le deae ex machina della nostra avventura erano la titolatissima Maria Sole Brivio Sforza e la fascinosissima Kristina Snajder) alla famigerata e chiacchieratissima mostra C&F (ma sia chiaro, io in quella roba lì non ci ho messo lo zampino). Potrei, potrei, ma non lo farò, perché sarebbero informazioni non richieste. E  poi non sono un nostalgico.

In compenso vi posso dire che l’ultimo studio manzoniano (nel senso, la tana in cui attualmente Giovanni Manzoni vive e lavora) in zona Porta Venezia riflette un po’ il suo gusto per l’arredamento d’interni: grandi spazi, magari ex palestre et similia, in cui perfino il più recidivo fra i malati di agorafobia scamperebbe il pericolo dell’horror vacui, con pareti mosaicate a grandi tessere di carta disegnata al caffè, anatomie che sembrano arrivate a noi direttamente da una bottega d’arte rinascimentale, in mezzo a penne, pennarelli, matite, libri illustrati, un pc sempre acceso, un grande schermo al plasma, un comodo divano, un incrocio a quattro zampe fra un boulledogue francese  e un carlino e un bel po’ di specchi, perché, in fondo in fondo, a casa Manzoni tu non sei mai solo/a.

Mentre in sottofondo una playlist quasi decente (informazione di servizio: Simply Red) commenta il disegno in via di apparizione cui Manzoni sta mettendo mano (committenza di una collezionista), parto a bomba con la prima domanda. Come vedrete, l’impressione è che il mio interlocutore abbia deciso di prendere il largo. O forse si teneva tutto dentro…in tal caso, ho messo in pratica l’arte maieutica di Socrate.

Senza neanche farlo apposta, proprio in questo momento ti vedo alle prese con i problemi “tecnici” di un artista. Cosa provi quando  un disegno non ti sta “riuscendo” come vorresti? Ti arrabbi quando sbagli?

Io sbaglio e sbaglierò sempre. Penso che le cose migliori si basino sugli errori, quindi più si sbaglia meglio è. Forse sono un po’ contro corrente rispetto al pensiero che va per la maggiore, che è quello di chi afferma di fare arte innanzitutto per se stesso e poi magari, se il suo lavoro funziona, anche per gli altri: la mia invece è un po’ una visione cinquecentesca se vogliamo, quando il committente di un’opera era felice di ciò che stava guardando (ferma restando l’autonomia creativa dell’artista che aveva realizzato la committenza. Non mi riferisco quindi al classico ritratto su ordinazione, che dev’essere fedele all’ “originale” in ogni dettaglio). Penso che nel corso dei secoli abbiamo creato una “struttura” artistica molto più che solida: oserei dire vincente da ogni punto di vista (il Rinascimento, il Manierismo, il Barocco, il Rococò…tutte “cose” che portano milioni di persone a visitare i musei d’Italia). Non saranno sicuramente i Futuristi ad attirare i turisti giapponesi e americani. Questo è un dato importante secondo me: una mostra di Boccioni attirerà tantissima gente ma non farà mai i numeri di Michelangelo, Bernini o Canova [in effetti la mostra di Boccioni a Palazzo Reale è orrenda, n.d.r.]. E’ un dato di rilievo questo, soprattutto in un momento in cui musei e gallerie   sembrano sempre più vuoti. E’ un periodo in cui il mercato ha bisogno di circostanze favorevoli per un “target”, diciamo, sempre più ampio, e non dedicato a singoli e pochi collezionisti che vogliono puntare su quel pezzo di Fontana, Burri, o quegli storicizzati che secondo me difficilmente avranno lo stesso successo del nostro Rinascimento et cetera. Anzi, ci sono i pessimisti che guardano al futuro come a una disgregazione di tutto quello che si star creando adesso sulle spalle del mercato: i bellissimi quadri di Van Gogh sono stati realizzati senza seguire una regola nell’uso del colore, mentre noi abbiamo un Tiziano che per fare l’incarnato, per fare un panneggio, utilizzava quaranta velature, quaranta velature calcolate, che sarebbero sopravvissute nei secoli. Un Van Gogh prende un tubetto e lo sparge sulla tela così, ok: è un “poeta”, un “selvaggio”, ma difficilmente fra cento anni quell’uso inappropriato dei mezzi, dipendente da una dimenticanza della tecnica, “starà ancora su”. Citando Bruno Munari: “Quando tutto è arte, niente è arte”. Mi viene in mente Picasso quando diceva che l’arte in fondo è una truffa: prendi una tela e dei colori da quattro soldi e poi scopri che il tuo quadro vale miliardi. Penso che si riferisse alla sua arte, a quello che vedeva attorno a lui: e infatti mai e poi mai diremmo che un disegno di Raffaello è una truffa! Nel mercato del contemporaneo, il disegno è quello che vale meno di tutti, fra installazioni e oli su tela et cetera. Eppure, se un disegno di Raffaello riesce a toccare certe vette, vuol dire che il passato dà ancora un occhio benevolo al futuro: voglio dire, qualcuno dal passato continua a imporsi sui tanti artisti del contemporaneo. Questo mi dà speranza: l’Italia ha dato le basi, ha dato “la regola”, all’arte figurativa. Pensa ai corpi dipinti di Roberto Ferri: chi li guarda, guarda qualcosa realizzato da qualcuno che è molto di più di, semplicemente, un artista “famoso”. Quando il visitatore entra in un museo a guardare un Fontana, diamo per scontato che capisca quello che sta guardando (immagino che non stiamo parlando di un contadino che sta pensando di guardare un pezzo di tela stracciata) e che sappia che sta guardando qualcosa di importante. Io invece la penso in maniera opposta: quando guardiamo un Fontana guardiamo il lato poetico di un artista, ma anche la disgregazione dell’arte. Quegli eroi sono stati messi sul podio sbagliato, come capisaldi dell’arte contemporanea: in realtà stanno distruggendo i pittori del futuro, perché fanno passare l’idea che si possa fare arte senza curarsi delle regole. Questo avrà delle ripercussioni, secondo me.
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Sicuramente la noncuranza della regola, in arte, è una jattura, ma secondo me (forse perché per “dovere” professionale mi tocca essere diplomatico) il discrimine fra arte buona e arte non buona non è tanto la mancanza di “regole”, quanto la mancanza di talento. Anche se la regola, il metodo, sono fondamentali. Comunque mi fa specie che a magnificare la bellezza dell’arte italiana sia un boliviano cresciuto a Bergamo e poi a Milano. Bene, non noti una generale rancorosità  verso le cosiddette opere “belle”? In fin del conto, un artista è un artigiano di lusso. Kent Williams non se lo caga quasi nessuno, qui…

Quella di fare “cose belle” è un’accusa facile. Guernica è considerato un capolavoro universale e secondo me questo vuol dire solo una cosa:  il mercato si è imposto totalmente sull’estetica. Mi fa ribrezzo. Guernica è un bel lavoro? Posso capirne l’impatto emotivo e sociale, ma non lo affiancherei mai a una Battaglia di Anghiari. Abbiamo ufficializzato il fatto che è lecito far dire alla volpe che l’uva è acerba. Tutti gli artisti adesso guardano un corpo disegnato in maniera eccelsa e dicono: “Bah, troppo accademico”. E non solo gli artisti, ma anche i professori e tantissimi critici! Proprio loro, che invece avrebbero il compito di marcare la differenza fra ciò che è fatto bene e ciò che è fatto male! Invece, nove su dieci pensano che Guernica sia un capolavoro, mentre uno che dipinge dei corpi bellissimi viene considerato un accademico. E magari artisti non proprio bravissimi ti dicono che è meglio fare un lavoro come Guernica o un’installazione di pilloline o di gonfiabili o dei fotomontaggi pessimi: secondo loro è importante il messaggio, perché la manualità,  la capacità, insomma la bravura, passa in secondo piano. So benissimo che alcuni di quelli che si complimentano per i miei lavori, una vota che mi voltano le spalle dicono: “Ah quello lì, fa i soliti disegni…”:  la famosa volpe di cui abbiamo parlato prima. Io penso che il disegno sia l’ABC di tutti, non solo degli artisti (l’ingegnere, il geometra, l’architetto). Conosco un sarto di Brera, che negli anni Sessanta realizzava i bozzetti degli architetti e lui ne era felicissimo:  aveva iniziato con l’incorniciare i bozzetti che gli portava Giò Ponti e finì col diventare un piccolo collezionista (anche mio). Se il disegno è l’ABC di ognuno, in modo particolare degli artisti, vuol dire che stiamo parlando di una competenza indispensabile, senza la quale un artista non conoscerebbe i fondamenti del suo mestiere. Uno scrittore “disegna” un suo romanzo,  ne fa una “traccia”…tutti noi, in realtà, abbiamo i nostri “disegni” mentali, i nostri disegni di vita, i nostri progetti, e questo è ancor più vero per un artista, solo che lui dovrebbe saperlo fare per davvero, questo disegno. Un artista che non sa disegnare è come un poeta che vuole scrivere senza conoscere l’alfabeto, o un architetto che non conosce la prospettiva… accusare di accademismo uno che magari fa dei bellissimi disegni equivale a distruggerlo: è la stessa cosa che rinnegare il disegno, punto. Io la penso così. Poi, se i vari Damien Hirst  e Jeff Koons hanno dimostrato che si può fare benissimo gli artisti senza saper disegnare, vuol dire che il mercato di adesso ha deciso così. Io spero che in futuro, a decidere, non sia semplicemente il mercato, ma il pubblico. Cos’è il potere dell’arte? Il pubblico.  Pensa alle aste: quali sono le opere più vendute di Picasso? Quelle del “periodo blu”, perché sono le più “comprensibili”. Fra gli artisti più venduti alle aste troviamo un Jack Vetriano:  guarda caso molte gallerie e molti critici lo snobbano, forse proprio perché raccoglie un grande consenso popolare. Noi artisti DOBBIAMO fare un’arte popolare: una Cappella Sistina raccoglie un consenso popolare che è universale,  con milioni di visite  in tutti i luoghi  connessi, compresi quelli con le “briciole” di Michelangelo, i suoi “disegnetti” su carta. Ma io quando vedo quei disegni mi emoziono: sono le radici del suo mondo, che è un mondo bellissimo. Quando invece guardo un disegno di Picasso, beh, cosa penso?, penso che sia una sua opera in piccolo…

Ti conosco dal 2008 e ho visto l’evoluzione del tuo lavoro, dalla serie dei Supereroi agli ultimi sviluppi, dove la scienza e la religione, unitamente a una certa idea di “società”, hanno un ruolo dominante. Cos’è Giovanni Manzoni adesso, rispetto a otto anni fa? Chi sono i suoi compagni di viaggio?

Bella domanda [l’intervistatore si fa pat pat sulla spalla, n.d.r.]. Me lo chiedo anch’io. Un artista che rispetto molto, Luca Pozzi, in una sua intervista disse di aver scelto, come compagni di viaggio, non quelli del mondo artistico, ma quelli del mondo scientifico. Penso che l’arte possa avere una scambio molto produttivo con gli altri mondi. E’ come se uno volesse conoscere il mondo rimanendo nel suo paesino: un paesino, in un mese lo conosci tutto! Noi costruiamo opere d’arte e movimenti artistici senza allontanarci mai dal mondo dell’arte e questo è molto sbagliato: dobbiamo relazionarci anche con altri mondi. Io, nel mio piccolo, mi sono affacciato al mondo di Nikola Tesla, che considero una specie di Leonardo Da Vinci, – spero che in futuro anche altri la pensino come me. Noi dobbiamo ammirare proprio quelli che stanno creando qualcosa di utile e bello, che serva anche a migliorare l’uomo: secondo me la vera arte è questo. Noi andiamo da Sotheby’s e vediamo un Bacon battuto a prezzi stratosferici ma non ci accorgiamo di una fotografia di Vik Muniz che rappresenta invece un vero e proprio traguardo per l’umanità, per la sua capacità di raccogliere i sogni di quelli che vivono nelle discariche trasformandoli in opere d’arte. Battute all’asta, il ricavato della vendita di queste opere viene devoluto a favore dei più derelitti: Vik Muniz  ha colmato un vuoto umanitario e questo mi fa pensare che l’arte possa essere veramente utile. Ma penso che lo sarà ancora più utile quando inizierà a pescare fra quelli che non dipingono né fotografano e che tuttavia realizzano qualcosa di veramente utile per l’umanità. Penso, appunto, a Nikola Tesla: quelli come lui sono i VERI creativi! I miei Supereroi, per rifarci a quando ci siamo conosciuti, erano questo: personaggi nascosti dalla società. Il sistema ci guadagna, a far passare l’immagine dell’artista chiuso nel suo studio a dipingere paesaggi, perché questo tipo di artista non fa paura a nessuno.  Gli artisti che fanno  paura sono infatti quelli che ridisegnano la società in un modo migliore e, ripeto, non sto parlando di persone che dipingono e fanno mostre. La società li maschera, li nasconde, li addita come pazzi idealisti, in alcuni casi li uccide, pensa a Stanley Meyer: la sua macchina ad acqua piovana è una delle sculture più belle del mondo! Non dirò mai nulla di simile per una scultura di Boccioni o di Brancusi…magari persone più intelligenti di me sanno o sapranno usufruire di questa bellezza, magari in altri modi. Io non sono il detentore della verità sulla bellezza, non lo è nessuno, tantomeno i collezionisti o i direttori di musei, persone che pensano di sapere cos’è veramente l’arte…

Nessuno di noi ha la verità in tasca. E in questi tempi di discussioni a favore o contro il multiculturalismo e di confronto e scontro fra diversi monoteismi, la mia attenzione è rivolta in modo particolare a questa tuo opera contrassegnata dal sincretismo religioso: in un’unica composizione un Buddha ride e prega alla maniera cristiana e le sue mani sembrano quelle di Dürer, mentre alle sue spalle spicca il dio Anubi affiancato da una scultura incaica femminile e sotto un San Sebastiano ci riporta alla tradizione figurativa cristiana…E sempre a proposito di sincretismo, perché hai disegnato quella Madonna nera con gli occhiali da sole che tiene in braccio un bambino biondissimo e bianchissimo?

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Stai parlando della mia serie delle religioni, nata quasi per caso in seguito a un progetto istituzionale su commissione per una chiesa sconsacrata di Reggio Calabria: il mio primo bozzetto raffigurava infatti un Mohammed Alì “trasfigurato” come un santo e poteva essere visto come la citazione di un lavoro di Andres Serrano. Bene, questo bozzetto fu scartato. E per fortuna, aggiungo: infatti, anziché realizzare un disegno più “pacato”, decisi di “compensare” questo sbilanciamento con una pluralità di religioni, incrociandole tra loro, per dire semplicemente questo. In quel quadro ho raffigurato anche una scultura incaica femminile e nelle religioni sudamericane non era inusuale che vi fossero anche divinità femminili: le religioni si devono unire! Ognuna di esse dovrebbe portare solo messaggi di pace! Per quanto riguarda la Madonna nera con gli occhiali da sole che tiene in braccio un bambino biondo, quel quadro l’ho intitolato Adozione e in parte è un lavoro biografico: mi chiamo Manzoni e ho il profilo di un indio. Io sono il risultato della globalizzazione  -ma umana! Sono un figlio adottato e quando rileggo la storia della Natività cristiana, beh, penso che Gesù sia stato il primo bambino adottato…e nella Gerusalemme di duemila anni fa vedere un bambino biondo con gli occhi azzurri sarebbe stato un po’ contraddittorio. Quest’opera rappresenta un po’ il mio modo di vedere l’adozione oggi: quando io sono in un bar e vedo una famiglia italiana che tiene in braccio un bambino africano, mi si riempie il cuore, perché queste persone hanno voluto così tanto quel bambino da decidere di andare dall’altra parte del mondo e salvargli così la vita…Diverso è il caso invece di chi vuole a tutti i costi un bambino e è disposto a spendere un sacco di soldi pur di averlo…Il mio quadro rappresenta questo: una Madonna contemporanea, con gli occhiali da sole, che tiene in braccio un bambino adottato.

Cosa pensi dei disegni di Charlie Hebdo?

Io la penso come Miyazaki: le persone imparano solo quando le cose si mettono male”. Non puoi prendere in giro le fede degli altri. Secondo me quella di Charlie Hebdo è stata una provocazione inutile, inutile come il cesso di Duchamp e i tagli di Fontana. Ma magari mi catalogheranno fra gli ignoranti che non capiscono niente…

Molti filosofi si sono chiesti cosa sia l’arte, col risultato di produrre tomi pensosi e pesanti e pedanti. Penso che una risposta più interessante possa arrivare direttamente da un operatore del settore: cos’è l’arte, per te?

Penso che l’arte sia un’idealizzazione di quello che abbiamo davanti agli occhi. Se vuoi vedere una persona dal di fuori, falle una foto; se vuoi vedere com’è fatta dentro, falle un ritratto.

Giovanni Manzoni, le donne, i corpi. Sei reduce dalla mostra C&F: che differenza c’è (se c’è) fra la pornografia e i tuoi disegni?

La pornografia, se fatta con un certo carattere (il che non vuol dire: fatta bene/fatta male), può essere molto interessante. A me non dispiace. Non ci vedo nulla di male a rappresentare quel che accade nella nostra intimità, con prospettive dettagliate e ravvicinate. Uno dei quadri più belli di Giger è una penetrazione vista dalla prospettiva dei testicoli e nella sua complessità sembra una gigantesca e bellissima architettura. Eppure si tratta di una penetrazione. Ricordo gli stupendi disegni di Tarlazzi per la rivista Selen, ma anche quelli di Manara, con quello stile molto aggraziato, poetico ed erotico.  Crepax poi è il mago, ha un segno così scoglionato che ti chiedi come possa suscitare certe emozioni: con una linea unica fa vedere a malapena un corpo.  Questa magia è la stessa che ritrovo nei disegni di Klimt e Schiele, con linee semplicissime che rappresentano giganteschi mondi erotici che mi affascinano e che cerco di emulare.

Cos’è la volgarità?

La volgarità sta negli occhi di chi la guarda…l’altro giorno finisco in un bar di fronte al mio studio e mi sembra di vedermi riflesso in uno specchio: un sudamericano mi saluta, è in compagno del suo amico spugna e di altri due dame che non nascondono nulla. Mi chiedono che faccio nella vita, rispondo che disegno corpi e…finisce che in studio mi trovo con quattro nuovi corpi nudi. Ecco, qualcuno potrebbe vedere questo fatto come un’alternativa veloce e disinibita all’adescamento,  invece  io penso a Terry Richardson e ad altri osservatori del grottesco, o di situazioni semplicemente  non velate: mi piace scrutare quel punto di fuga senza cancellare niente se non i vestiti. Insomma, per me è stato un pomeriggio come un altro, o meglio:  la straordinarietà di un pomeriggio qualsiasi di uno che ama l’anatomia casuale,  godereccia, bizzarra, naturale o ordinaria…

Ultima domanda: un tuo giudizio su quelle artiste e/o aspiranti tali, solite postare su Facebook i loro autoscatti come mamma le ha fatte. A volte non si tratta nemmeno di foto che fanno parte di una serie artistica…

Siamo in un mondo “pseudo libero”, quindi ognuno fa come gli pare. Uno può fare quattro schizzi che vorrebbero raffigurare un paio di gambe e poi dire: “Questa è la mia arte”. Ok. Ma la situazione si fa pericolosa quando entra in gioco il gallerista che finge di dare credito all’artista in questione perché è una bella ragazza, o quando il critico scrive un articolo favorevole al suo lavoro magari perché lei gli ha offerto “una cena”, diciamo. E’ colpa loro, ma è soprattutto colpa di un sistema che appoggia tutto questo. E’ la solita storia. Come diceva Woody Allen, “non ho niente contro Dio, è il suo fan club che mi spaventa”. Praticamente abbiamo creato il fan club di tutte queste primedonne che nel Cinquecento avrebbero sicuramente lavorato in cucina e basta.

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