TORNIAMO SUL TERRENO SCABRO. AUTOPSIA DI ARTE E CRITICA

0 Posted by - March 15, 2010 - Approfondimenti

Kritika onpaper # 2 – Milano – 04 | 03 | 2010

Non credo che l’arte sia una forma di conoscenza, né sono sicuro che possa contribuire secondo modalità sue proprie a una critica della conoscenza.

Per prima cosa andrebbe comunque chiarito in via preliminare il significato  e la portata del concetto. Che cosa si intende quando si parla di conoscenza a proposito di arte? Per rispondere a questa domanda è necessario che si sappia di che cosa si occupa l’arte.

Credo che uno degli scopi principali per cui l’artista non cessa di produrre oggetti è creare nell’osservatore una data impressione, colpirne prima di tutto l’immaginazione, stupire e in second’ordine, semmai, sollecitare una forma  di riflessione.

L’artista non si occupa in genere dei meccanismi della percezione, non essendo l’arte una disciplina scientifica; essa si fonda tuttavia sulla percezione, o non si comprenderebbe l’attributo “visive” associato di solito alle arti.

Un’altra possibile osservazione a sostegno della mia ipotesi è la circostanza secondo cui il successo di una teoria scientifica dipende dalla capacità di risolvere problemi sia teorici che pratici.

Da che cosa dipende invece il prevalere di una forma d’arte a scapito di un’altra? Il maggiore o minore successo di un artista rispetto a un altro?

Se si osserva la storia dell’arte si vede che i movimenti artistici si susseguono senza che se ne possa dedurre il superamento da parte di una corrente sul movimento precedente. Il cubismo non è in alcun modo il superamento dell’impressionismo, l’astrattismo non ha migliorato l’arte figurativa.

Né si può dire che la fama dell’artista Fontana sia da attribuire alla risonanza teoretica della sua idea di spazio. La ragione, in questo caso, è semplice: nessuno prima di lui aveva fatto un taglio sulla tela ed esaurito l’opera in quell’unico gesto. As simply as that.

Non esiste opera d’arte, per quanto monumentale e spettacolare essa sia, in grado di competere in forza penetrativa e cognitiva della realtà con Dialektik der Aufklärung (1944) o Deschooling society (1971), rispettivamente di Adorno e Horkheimer e di Ivan Illich, solo per fare due esempi. Senza ovviamente trascurare il fatto che sia le opere figurative che i testi teorici e critici sono portatori di un contenuto storico oggettivo definito.
Nonostante, dalla seconda metà del Novecento con particolari accenti, le istanze sociali e più in generale educative siano entrate a far parte dell’opera sia come momento ispirativo sia come oggetto vero e proprio di ricerca, l’arte non ha mai prodotto conoscenza nel campo della teoria della società o in qualsiasi altro campo. Né credo sia in grado di farlo.
Posto che sia così, da cosa dipende tale abbondanza di razionalizzazione attorno all’arte, più o meno chiara o fumosa? Perché tanto bisogno di spiegazione? Perché, di fronte a un’opera, è importante conoscere la sua ragione d’essere, ammesso che esista?
In fondo, che l’opera abbia in se stessa la propria giustificazione è da tempo immemorabile un luogo comune. Dal giorno in cui l’arte è diventata un settore dell’industria culturale è mutato anche il rapporto con il pubblico e di conseguenza la fruizione.
Ora, vi sono due modi essenzialmente per cercare di spiegare l’arte. Uno consiste nel collocare l’oggetto all’interno del contesto storico in cui fu concepito e creato, e nel tradurne il vocabolario in uno accessibile al pubblico. L’altro consiste nel tentativo, io credo disperato, di far emergere il supposto contenuto intrinseco dell’opera, legato invece all’esperienza dell’uomo, alla vita generica.
Oggi, domenica 6 dicembre, ho potuto osservare l’opera di Anish Kapoor, Memory, realizzata grazie al contributo di Deutsche Bank appositamente per il Guggenheim di New York, dopo aver ascolato sul sito del museo un’intervista all’artista alternata alle sagge parole di una curatrice. Nonostante le molte cose ragionevoli dette da entrambi, la sensazione che in definitiva fossero inutili, retoriche o semplicemente didascaliche non mi ha abbandonato, soprattutto se riferite alla produzione di un artista, Kapoor (ma come la sua quella di tanti altri), che ha nell’ancestrale, nell’ineffabile e nella dimensione del mistero il fulcro principale: quanto di più contrario a uno spirito illuminista si possa immaginare. Addirittura reazionario, se queste parole avessero ancora oggi un senso qualsiasi. Ma ora il dato: una grande forma ovoidale composta da spicchi di ferro arrugginito imbullonati tra loro è costretta all’interno di un volume come se vi fosse incastrata. La visione dell’oggetto misterioso è possibile da tre punti di vista differenti e parziali. Ci sono un punto d’ingresso e uno d’uscita, da cui sporgono le estremità, la testa e la coda del baccello. E un punto laterale, con accesso autonomo, alla cui parete principale è appeso un grande rettangolo nero che si rivela poi essere, come in altri lavori di Anish Kapoor, l’apertura all’interno dell’oggetto, il cui fondo rimane immerso in una oscurità impenetrabile. Il fatto che lo spettatore sia costretto a peregrinare da un capo all’altro all’esterno del volume solo per ottenere una visione limitata e poi perdersi nella cavità imperscrutabile avrebbe di per sé attinenza, secondo le parole della curatrice, con l’attività del rimemorare. La notte stessa ho fatto un sogno: sono con alcuni amici davanti all’opera di Kapoor, esposta in un’istituzione italiana, forse milanese. A qualcuno viene in mente di sgonfiarla e, per quanto strano, l’operazione riesce. Solo a questo punto ci rendiamo conto che non è ferro, ma gomma. Ora l’oggetto è afflosciato, ondeggiante e informe, sul pavimento. Il museo sta per chiudere e Kapoor ci sorprende a metà dell’opera, mentre nascondo goffamente dietro la schiena una bomboletta d’aria compressa. Diremo a una rivista che non è di ferro, sento minacciare. E allora, risponde Kapoor, ne ho fatto un’altra così, nel deposito di una ditta per il riciclaggio del ferro, ma quella era molto più costosa. Era così peaceful, così peaceful. Le sue ultime parole.
Conoscenza e scienza, nel campo dell’arte, hanno significato solo nel caso della ricerca storiografica sull’arte e in quello particolaristico degli strumenti tecnici,  dei materiali e delle procedure proprie di ogni singola disciplina, mentre non hanno nulla a che vedere col contenuto. Eppure, strano a dirsi, è proprio attorno al contenuto, al mistero che sembrerebbe custodire e l’opera trasmettere, che continuano a frangersi, con una ostinazione che insospettisce, molte, troppe inutili parole. Anche l’uomo comune arriva al misticismo e all’incommensurabile. L’uomo com’è, l’uomo come l’Arte vuole che sia.
 
Aldo Runfola nasce a Palermo nel 1950. E’ un artista e vive a Berlino. Ha studiato filosofia all’Università Statale di Milano e si definisce un umanista in prestito alle arti visive. Lavora con media diversi, video fotografia testi ricami, esposti in varie personali e collettive a partire dal 1984. Affascinato e in eguale misura sospettoso tanto delle parole che delle immagini ha girato un video dove avanza l’ipotesi che l’arte sia una costruzione teoretica.  Gli piace leggere, scrivere e sciare quando nevica.

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