TAKASHI MURAKAMI | IL CICLO DI ARHAT

2 Posted by - July 30, 2014 - Kritika segnala, Recensioni

La Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano è stata bombardata nel 1943 e dieci anni dopo ha ospitato Guernica di Picasso, monumento-vessillo per non dimenticare le “mattanze” belliche. Ora, se arte, moda, computer grafica e business s’incontrano in questo luogo carico di significati simbolici, allora i casi sono due: o le opere dialogano con lo spazio oppure rischiano di essere fagocitate dall’imponenza dell’architettura.

E questo è accaduto in occasione della prima personale di Takashi Murakami (1962), “seguace” di Andy Warhol e ricco come Jeff Koons, star giapponese dell’arte contemporanea per il suo stile new-manga pop fumettistico, allegro e colorato con ridenti e scanzonate faccine tonde come emoticons e anime (cartoni animati ) e yokai (mostri  con poteri soprannaturali), vendute a peso d’oro nelle aste internazionali.

Murakami, businessman che ha magistralmente coniugato arte e capitale come il maestro Damien Hirst, si presenta a Milano con una dozzina di nuove opere che dovrebbero rappresentare una svolta  spiritualista dell’autore: vedere per credere! La mostra milanese, a cura di Francesco Bonomi (il critico più caro sul mercato dell’arte internazionale dopo Germano Celant), comprende un ciclo di opere ispirate al disastro nucleare di Fukushima, dall’ascetismo spiritualista  poco convincente: i fiori e le faccette sorridenti sono stati sostituiti da figure più inquietanti, all’ombra di un tiglio sacro, ispirate ad Arhat, importanti per il Giappone quanto i nostri santini, in omaggio alla tradizione buddista e alla pittura nihonga.

Dal primo film di Murakami, Jellyfish Eyes (proiettato in alcuni musei statunitensi e giapponesi e al cinema Apollo di Milano in questi giorni), la star giapponese utilizza mostriciattoli con poteri soprannaturali che, uniti alla tradizione manga, culminano in un lungometraggio live-action: una tecnica che mescola attori reali e disegni animati anni,  in cui ingenuità e ironia si fondono in uno stile surreale.

La mostra di Takashi Murakami è stata organizzata da Blum & Poe e da KaiKai Kiki, società di produzione e art management, in collaborazione con Altofragile e yoox.com, marchio noto anche per aver disegnato le borse griffate Louis Vuitton che piacciono più ai giapponesi e meno ai francesi: dunque questa mostra pensa, struttura e produce arte (caramelle, giocattoli, skateboard, t-shirt eccetera) come un brand commerciale. Francesco Bonami conosce l’artista dal 1997 e lo definisce un “bambino antico”, che “ha  sempre riflettuto sull’adolescenza come stato perenne della società  giapponese del dopoguerra” -come scrive il curatore nel testo critico di presentazione della mostra-,   capace di intrecciare tradizioni dell’estremo Oriente con linguaggi dell’Occidente. Gli dobbiamo credere?

Nel 2001 Murakami ha teorizzato l’estetica  superflat (superpiatta), valorizzata da colori acidi e in digitale, dall’immediato impatto decorativo, rielaborando un immobilismo di superficie che rimanda a codici stilistici di Utamaro e Hokusai ma in chiave pop nevrotico-psichedelico-convulsivo, dove cultura bassa e tradizione  sono mixate con una dose massiccia  delle più effimere mitologie della società dei media.

I monumentali pannelli, lunghi fino a dieci metri, perimetrano la Sala delle Cariatidi senza però interagire con l’architettura, mostrando una sequela di monaci-zombie dagli occhi spiritati che dovrebbero, secondo l’artista,  rappresentare il suo stato d’animo ora cambiato,  meno venale rispetto al passato, dopo la catastrofe di Fukushima.

All’entrata della mostra vi accoglie l’Oval Buddha Silver, una scultura bagnata nell’argento, più  manga che Buddha. E, a proposito di autocelebrazione onanistica che poco c’entra con meditazioni spiritualiste, vedrete una decina di autoritratti dall’infantilismo esasperato, in cui compaiono teschietti e sfere oscure, in cui Murakami si ritrae come nuovo Piccolo Principe di Saint- Exupery, in piedi su una nebulosa gassosa più che su un pianeta  vero e proprio, con alle spalle un buco nero pronto a fagocitarlo da un  momento all’altro.

In queste opere non c’è dramma né paura né tanto meno inquietudine per la consapevolezza dell’impotenza umana di fronte alle misteriose forze dell’Universo. La mostra è molto apprezzata  dagli asiatici, mentre gli occidentali si concentrano di più sulla straordinaria energia della Sala delle Cariatidi, in cui  le opere di Murakami si annientano nonostante la pseudo spiritualità  dichiarata dall’autore, qui “crocifissa” nella  fiera delle vanità del mercato internazionale.

Takashi Murakami | Il ciclo Arhat
a cura di Francesco Bonami

Palazzo Reale,
Milano

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