Ryts Monet è un giovane artista eclettico e attivo in Italia e all’estero. Partecipa al Premio Celeste 2013, al Premio Francesco Fabbri 2014, al Premio Combat. Lo vediamo in numerose rassegne di arte contemporanea come la Biennale di Venezia e il Kumu Museum di Tallinn ed è il protagonista di mostre personali come Why do I want to go to Mars, curata da Martina Cavallarin e Nessun dove, curata da Pietro Gaglianò.
Oggi mi interessa approfondire con lui Black Flag Revival, il lavoro che ha vinto il Premio Celeste 2013 ed è stato esposto alla Fondazione Bevilacqua La Masa e a F4/ Un’idea di fotografia 2015: esso racconta il dramma dei suicidi degli imprenditori veneti dettato dalla crisi economica che ha colpito il nostro paese negli ultimi anni. L’artista propone un’installazione nella quale scorrono in loop le immagini delle abitazioni dei suicidi, accompagnate dalla colonna sonora di un gruppo hardcore-punk.
Chiara Pozzobon: Per quale motivo nel tuo lavoro Black Flag Revival hai deciso di adottare degli strumenti desueti come una televisione a tubo catodico e un proiettore da diapositive?
Ryts Monet: L’utilizzo di dispositivi non attuali è dettato dalla volontà di sospendere il lavoro in un altro tempo. L’idea stessa di revival si basa sul mettere in scena o riportare in vita per un breve tempo un fenomeno, evento o situazione che appartiene al passato, creando appunto una sospensione tra due momenti distanti temporalmente. Quello che mi interessava fare attraverso il revival non era solo la creazione di una tribute band dei Black Flag, ma anche proporre una serie di concerti hardcore-punk a Venezia e portare alla luce una scena musicale che esiste in Veneto e che ha le sue radici in quella sottocultura nata tra la fine dei ’70 e i primi ’80 negli Stati Uniti. Per questa parte del lavoro devo ringraziare soprattutto i musicisti con cui ho collaborato: Enrico Stocco, voce e chitarra della tribute band, che mi ha aiutato a organizzare gli altri concerti, Andrea Carpenè e Corrado Linzi, rispettivamente bassista e batterista del gruppo.
Cosa vuoi significare tramite il cortocircuito percettivo che si innesca nel dialogo tra il frastuono della musica hardcore-punk e il silenzio delle case mappate fotograficamente?
Attraverso il lavoro fotografico ho voluto mostrare la degenerazione della provincia veneta, con la parabola del boom e poi la crisi. C’è una suggestione che sta alla base dei “montaggi” che costruisco nei miei lavori, in questo caso mi interessava l’attrito che si veniva a creare tra l’impulso della musica harcord-punk, che io percepisco come grido vitale, e la decadenza di un modello o di un sogno.
Il testo di una delle canzoni parla del family man, con la vita e la casa perfetta, ma i cantanti urlano rabbia e dissenso, un richiamo agli imprenditori suicidatisi per la crisi.
Per il concerto della tribute band ho chiesto al batterista del gruppo di recitare le parole di Family man in apertura della performance. Family man è il terzo disco dei Black Flag, forse il più emblematico e quello che più ho preso come riferimento per il mio lavoro, anche per la copertina dell’album, disegnata da Raymond Pettibon. Nella copertina si vede un padre di famiglia che uccide moglie e figli e poi si punta la pistola alla tempia. Family man è la prima traccia del lato A, è letta senza base musicale, come una poesia.
In Black Flag il suono del proiettore assomiglia al grilletto di una pistola, premuto ad ogni cambio immagine. Si potrebbe dire che quelli che tratti non siano suicidi, ma omicidi compiuti dalla crisi economica.
In realtà quello che mi interessava del rumore del proiettore era la modalità di scansione del tempo, come il metronomo usato in musica, un’entità seriale, qualcosa che si ripete sempre allo stesso modo e che scandisce anche le immagini.
Il tuo vuole essere un messaggio di denuncia o il racconto di un momento storico? Come ti sei documentato sul fenomeno?
Sul fenomeno dei suicidi ho raccolto articoli di cronaca nera pubblicati sui giornali locali nell’arco di un anno. Alla fine mi sono ritrovato con una sorta di database con i nomi e i luoghi relativi ad ogni fatto registrato. Quindi ho deciso di catturare dei frammenti di quelle province, nello specifico le facciate delle case e dei giardini, ritratti sempre dall’esterno. Sono scenari anonimi, banali, quotidiani, case della borghesia veneta. Ci sono però delle costanti e delle analogie che lasciano intravedere qualcosa che continua a sfuggire nel racconto di quel trauma.
Il tema del paesaggio e della tragedia lo ritroviamo anche nel tuo lavoro The magic piper of Ishinomaki, nel quale un pifferaio sosta davanti a edifici e strade alterati o distrutti dalla catastrofe della centrale nucleare in seguito allo tzunami. In quell’opera vediamo edifici fisicamente compromessi, mentre in Black Flag la ferita si avverte all’interno delle abitazioni.
Una delle riflessioni che sta dietro al progetto realizzato a Ishinomaki è il contrasto tra un paesaggio dominato e la natura che se ne riappropria, generando quello che l’uomo chiama caos. Se all’interno di quel contesto ogni immagine, presa singolarmente, poteva potenzialmente diventare emblema della catastrofe, come un monumento spezzato o una casa distrutta, in Black Flag Revival è il contrario: il trauma si percepisce appena e si comprende solo attraverso la ripetizione in serie delle immagini silenziose.
La tua ricerca è di carattere intermediale, come capisci che uno o più medium espressivi siano adatti ad una determinata progettualità?
La scelta del medium dipende dal tipo di percorso che faccio di volta in volta. Può essere frutto di una scelta precisa o qualcosa che mi ritrovo ad utilizzare e a cui mi porta il processo di ricerca.
Nel tuo lavoro Sisters, proponi ottantotto immagini della Statua della Libertà provenienti da vari paesi, rendendo evidente la perdita benjaminiana del hic et nunc. Cosa comporta, secondo te, la trasposizione del simbolo della libertà nei diversi luoghi del mondo?
Sisters è una collezione di immagini, una ricerca su un monumento e su un simbolo che se replicato e inserito in altri contesti geografici può porre delle nuove questioni. Le immagini che ho collezionato, relative alle copie della statua della libertà, sono trasferite su carta tramite un processo chimico, una tecnica che fa sì che i dettagli della stampa di partenza, la “matrice”, in parte vadano a perdersi nel momento in cui avviene il trasferimento. Uno dei miei ultimi lavori è 30x30x30, nel quale considero un altro monumento, l’obelisco, utilizzando delle cartoline che ritraggono quest’elemento situato in vari luoghi del mondo. Assemblandole a coppie, tramite collage, si genera una terza immagine, un nuovo monumento che non appartiene a nessun luogo.
Nato a Bari nel 1982, nel 2007 ha conseguito la laurea triennale in Arti Visive e dello Spettacolo presso l’Università IUAV di Venezia e nel 2011 la laurea specialistica in Comunicazioni Visive Multimediali presso il medesimo istituto. Nel 2010 è stato artista in residenza presso la Fondazione Claudio Buziol di Venezia. Nel 2011 ha partecipato alla residenza-workshop tenuta da Adrian Paci presso Rave East Village a Trivignano Udinese. Durante lo stesso anno ha partecipato alla 15th Tallinn Print Triennial e a un evento performativo presso Osloo Floating Pavillion per il Padiglione Danimarca alla 54^ Biennale di Arti Visive di Venezia. Nel 2012 è stato assegnatario di uno degli atelier della Fondazione Bevilacqua La Masa presso Palazzo Carminati a Venezia ed ha partecipato ad workshop-residenza Penso con le mie gionocchia tenuto da Mario Air , Stefano Dugnani e Diego Perrone presso la Fondazione Spinola Banna per l’Arte di Torino. Nel 2013 è stato artista in residenza a Tokyo presso l’Institute of Contemporary Art and International Cultural Exchange, Tokyo Wonder Site. Il progetto realizzato in Giappone vince un finanziamento erogato dal bando Movn’Up, promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dal GAI, Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani. Durante lo stesso anno vince il primo premio della sezione installazione, scultura e performance del Premio Celeste, decima edizione. Nel 2014 presenta la sua prima mostra personale in Giappone intitolata Sisters, presso la galleria COEXIST a Tokyo. Da agosto a novembre 2015 sarà artista in residenza ad Amesterdam presso BijlmAIR, programma di residenze d’artista dello Stedelijk Museum Bureau Amsterdam (SMBA). Da gennaio 2015, Ryts Monet è artista membro di ARTIST PENSION TRUST GLOBAL. Da novembre 2015 sarà docente a contratto per il LABORATORIO DI ARTE 1 del corso di laurea triennale in Arti Visive, presso l’Università IUAV di Venezia.
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