RENE’ PASCAL | MIREK ANTONIEWICZ

0 Posted by - January 31, 2014 - Recensioni

Nel quartiere milanese di Lambrate esiste un posto speciale, un posto che esiste solo a Milano.

Si tratta di una copisteria, frequentata dunque da studenti, ma non solo. Chi entra per chiedere una stampa potrebbe conoscere il proprietario, Adriano, e può darsi che sia un appassionato d’arte o un artista timido, se è così tornerà molte altre volte.

Adriano è un mecenate moderno, che ha trasformato la copisteria in uno spazio dove giovani artisti espongono le loro opere di non grandi dimensioni tra le macchine fotocopiatrici, ma questo è stato solo l’inizio. Col tempo la selezione si è raffinata e accanto a lavori di qualità hanno iniziato a fare capolino anche  quelle di un certo Renè Pascal.

La copisteria era già diventata una galleria sui generis, la Piscina Comunale, nome trovato da Adriano con l’amico pittore concettuale Paolo Barrile (1925-2008).

Attraverso le conoscenze di Renè è giunta a noi l’opera di Mirek Antoniewicz. Gli fu proposta una personale presso la Piscina Comunale e gentilmente fu declinata. Poi Mirek vide un video di un vernissage e riconobbe, nel luogo e nell’entourage di chi lo frequentava, un ambiente adatto ad accogliere l’atmosfera dei suoi dipinti. Accolse la sfida e nella primavera del 2013 espose una ventina dei suoi lavori.

Quest’anno la galleria 77artgallery di corso di Porta Ticinese vuole raccontare con una bipersonale questo sodalizio artistico.

Mirek Antoniewicz nasce in Polonia nel 1954. Vediamo in mostra un’antologia della sua ampia serie di dipinti con lo stesso soggetto, un bambino in una dimensione fatta di sogni e ricordi inserito ogni volta in un contesto differente, con diversi elementi a corredo, come attributi di un’iconografia sacra, utili a determinare una simbologia specifica per ogni dipinto.

E’ la memoria a guidare il gesto, quella dell’occhio di un adulto che si guarda allo specchio come se fosse bambino, e attinge un sentimento diverso ogni volta che si osserva, quando tutto ciò che del mondo può esistere vive ancora in potenza di essere.

Come spiega l’artista sul suo sito personale, il fanciullo ritratto è lui da piccolo in mezzo alla piazza del mercato di Wroclaw nel 1959, mentre dà da mangiare ai piccioni. Sono tutti ingrandimenti su carta dello stessa foto lavorati e trasformati con pittura acrilica.

L’evocazione è quindi quella di un passato reale, un attimo ben preciso catturato in uno scatto. A ben guardare però l’immagine, trattata volutamente come una serie, cessa di esistere come autoritratto, il bambino trascende l’idea di bambino reale, e diventa simbolo.

Il momento catturato è all’interno di un ambiente, quello della piazza polacca, dove tutto è grigio e desolato, e lo sguardo del protagonista che ci osserva è la registrazione di esperienze passate, di scelte, aspettative, desideri e privazioni, che evoca quindi non soltanto un passato individuale, ma il passato collettivo per la generazione degli anni Cinquanta. Spinge a riflettere sulle difficoltà del dopoguerra, sulla fatica di diventare adulti.

Tutto questo è valido pensando alla genesi dell’opera, ma si legge anche, guardando dalla prospettiva odierna, e quindi con la ormai ampia distanza dal soggetto, come questa fetta di passato sia liberata dalla sua pesantezza perché vista con più clemenza. E si vede chiaramente che il simbolo dell’essere in potenza ha in sé una forza vitale. I dipinti si differenziano con diversi attributi proprio per esprimere le possibilità e le condizioni che determinano le scelte, e nella volontà di questo differenziarsi del soggetto Mirek ci mostra una leggera ironia.

L’aspetto cromatico non varia molto di dipinto in dipinto: la predominanza di bruni e grigi, enfatizza il senso dello scorrere del tempo ma vira spesso in tonalità rosse con accenni blu, come un intervento di presente e leggero nella materia, un tocco di quella clemenza e ironia, ma anche speranza, come l’artista stesso accenna sul suo sito.

Sono gli elementi addizionali che creano una situazione ogni volta nuova. Talvolta appartengono alla vita reale, come gli occhiali, il piccione o i giochi d’infanzia, e talvolta sono pura finzione e provengono da un mondo alternativo, come le orecchie di Topolino o i numeri e le scritte sul petto. L’evento in corso identifica il ruolo del bambino e provoca interpretazioni nello spettatore.

La postura quasi statica e silenziosa e l’espressione enigmatica, con lievi differenze in sorrisi abbozzati, enigmatici o malinconici, unita al cromatismo tonale e morbido, rendono poi il soggetto sospeso in una dimensione onirica, ci sussurrano con dolcezza l’idea di una possibilità, rendendo l’emozione vibrante del nostro immergerci nella riflessione sulla difficoltà della vita. Ci spinge a ragionare con le emozioni e i ricordi, ad essere ad altezza di bambino.

Se per Mirek Antonievicz l’ironia era velata, nelle opere di Renè Pascal è preponderante. Inoltre qui non ci troviamo di fronte ad un corpus di opere definito e unitario ma ci sono oggetti, assemblaggi e anche alcune elaborazioni da fotografie, con un risultato di stampo figurativo.

I suoi lavori partono tutti dal concetto di objet trouvé duchampiano, ma non limitano l’operazione agli oggetti bensì, attraverso l’uso di collages,  ad  immagini provenienti da diverse fonti, fotografie e lettere, quasi sempre dimenticate presso la Piscina Comunale da qualche sbadato cliente. Si entra così nell’intimità di sconosciuti e con lo spostamento di significato tipico dell’arte concettuale di Renè, ci si inoltra in un territorio di metafore e giochi di parole.

Pascal ama dare titoli alle sue opere perché è attraverso di essi che l’osservatore trova la chiave di lettura dell’operazione di ribaltamento di senso. In certi casi si supera l’ironia e si crea proprio ilarità: l’opera Tavola Calda è mezzo skateboard bruciato, La vite è bella è un grosso bullone esibito con pomposità su di una colonna corinzia bianca, una Bic incorniciata è Cappuccetto Rosso. La vista del sapone di Marsiglia ha risvegliato un giorno in lui l’idea della somiglianza con uno stecco gelato e ha quindi deciso di attaccare lo stesso al sapone, farne una serie di tre e denominarli Marsigliesi. In altri casi il gioco di parole e la simbologia dei materiali utilizzati suscitano un senso di amarezza e di consapevolezza tragica, ad esempio in Lampedusa una barchetta di carta apre una breccia in un mare fatto di chiodi.

Ci sono lavori molto ironici che giocano con il mito dell’arte, anche totalmente originali, ready made delle idee dei soggetti stessi: una busta rimandata al mittente perché piena di tagli, spedita a René da Lucio Fontana, poi un annuncio funebre di Mimmo Rotella, costruito con brandelli di altri manifesti, a ricordare quelli dell’artista citato.

Le opere invece più figurative sono foto, elaborate graficamente e rigenerate con del colore o contornate a penna o matita, che attingono forse dalla memoria di Renè…o di qualunque altra persona! Non sappiamo se ritrovate aprendo un cassetto o recuperate da qualche mercatino delle pulci. Per come sono posizionate le immagini, o per la loro deformazione dovuta all’operazione grafica successiva, anche qui chi osserva determina il loro significato con la guida del titolo. Il pubblico è coinvolto attivamente nell’operazione, come in un gioco combinatorio e logico accattivante, mai banale.

Una nota a parte va scritta per Cara Cognata, installazione che nasce dal reale ritrovamento di una foto e di una lettera. In un angolo della galleria sono posizionati i documenti “originali”: una signora ritratta con il figlio down negli anni sessanta e una lettera rivolta appunto alla cognata nella quale si scusa per un ritardo e ammette di avere scelto, da allegare, un’immagine di sé più giovane, che la renderebbe più adeguata ad un ricordo. L’intimità e la delicatezza di questo mondo d’altri tempi, è registrato e interpretato da alcune tele che ripropongono parti di lettera nella grafia dell’autrice, e altri scatti a contestualizzare in maniera funzionale quell’atmosfera. Viene proiettato anche un video nel quale l’immagine della coppia è accompagnata dalla lettura di una voce femminile del testo.

In questo caso non c’è il senso di spaesamento e di cambio di senso ma una messa in scena dello sprigionare di un’atmosfera al momento del ritrovamento dell’oggetto, come per un reperto archeologico del secolo appena passato.
 

 
Renè Pascal | Mirek Antoniewicz

77 Art Gallery
corso di Porta Ticinese 77, Milano

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