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Marco Lomonaco
«Riassumere un momento in un movimento»: lo spazio e il tempo sono qualcosa da indagare, qualcosa di relativo rispetto al soggetto che si muove all’interno. Uno scatto racchiude un momento, imprigiona un attimo e lo “stabilizza” per sempre. E se invece uno scatto “immobile” potesse paradossalmente racchiudere il movimento? Un piccolo gioco di parole, che fornisce una visione obliqua sui lavori di Giacomo Vanetti, artista che vive e lavora a Varese, con all’attivo diverse mostre, sia personali che collettive, in spazi istituzionali e gallerie private (fra le ultime, una personale nella milanese Area 35 di Giacomo Marco Valerio e una collettiva, sempre a Milano, nella Mc2gallery di Claudio Composti e Vincenzo Maccarone). Vanetti ha fatto dell’indagine dello spazio e del tempo, della distorsione dello stesso e dalla sua malleabilità artistica, il suo marchio di fabbrica.
Inizia come studente di grafica e design e scopre la fotografia durante un periodo di Erasmus trascorso in Spagna. Ritornato in patria, allestisce una camera oscura improvvisata con rimasugli che trova qua e là. Inizia a lavorare dapprima con il bianco e nero (caratteristica che lo accompagnerà in tutta la sua produzione) per poi sperimentare il colore, ma sempre muovendosi nella singolarità di un unico tono cromatico.
Osservandone le opere di Giacomo Vanetti si ha un impatto visivo immediato con una «bellezza nascosta da un’interferenza»; il lavoro distorsivo percepito, arriva nientemeno che da un particolare utilizzo degli strumenti del mestiere. Un classico esempio di errore che diventa valore è An Aborted Beginning, serie che nasce dalla volontà di fotografare degli scatti già esistenti con della pellicola polaroid scaduta, andando a creare aloni ben visibili sull’immagine. L’artista spiega che quando inizia a lavorare ad un nuovo progetto, parte con un’idea definita per poi farsi trasportare ed influenzare dai mezzi che utilizza per realizzarla.
Tanti scatti racchiusi in un’unica immagine rappresentano appieno la tecnica di Giacomo Vanetti, che in Death of a party scatta tre volte senza mandare avanti la pellicola, ricavando movimento nella pur staticità della fotografia. Il processo artistico in questo caso sta certamente anche in un lavoro importante di post produzione “artigianale” (lasciando per lo più da parte il PC), andando ad eliminare impurità e sporcizia ed innestandone altrettante. Altra peculiarità che colpisce nella fotografia dell’artista varesino, oltre alla serialità degli scatti, è la costante presenza del nudo femminile, dovuta alla ricerca del connubio tra classicità e attualità, con giusto un pizzico d’avanguardia; la forma femminile, nella sua aggraziata sinuosità, favorisce l’idea del movimento e relativizza quella di spazio.
In parole povere, questi corpi imprigionati negli scatti, sembrano quasi agitarsi e volersi liberare dall’immagine stessa. Quest’idea viene resa ancora di più dai lavori su video condotti dall’artista (dai quali poi sono stati estratti alcuni fotogrammi seriali): da segnalare in particolare il video, girato presso la ceramica Richard Ginori di Laveno Mombello a Varese, dal titolo In punta di piedi, da cui successivamente ha realizzato delle Polaroid: la serie in questione presenta una ballerina intenta a girovagare per questa immensa fabbrica abbandonata indossando le scarpine da ballo e mantenendo la posizione sulle punte, come fosse immersa in una “dimensione” di totale assenza spaziotemporale.
La capacità di non soffermarsi sul passato, dà la possibilità all’artista di continuare ad esplorare nuove tecniche, di cadere in errore e farne il proprio punto di forza, di correggere, di sporcare e di continuare a indagare la realtà, a modo suo.
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