La memoria non contiene immagini
(tratto da Nikon, Quando la scheda è vuota, 2013)
A me piace pensare che l’arte vada meritata. Volendo mi piace anche pensare che vada meritato pure il lemma arte. In un’epocaccia – la nostra – nella quale l’assuefazione all’immagine è virale quanto un’influenza stagionale beccata alla fila d’una cassa del supermercato, mi tocca (per onestà) invocare la peste d’una possibile neo-iconoclastia. Nell’eventualità semiologica d’un approccio esistenziale al pittografismo più becero e volgare, dunque, io indosso le vesti di quell’Imperatore, Leone III, che in quel di Bisanzio emanò una serie di editti per abrogare il culto delle immagini sacre. Altri tempi. Lo si sa. Correva il secolo IV. Ogni figurazione traboccava di oro (almeno nella misura in cui serviva da encomio per l’Impero). Una serie di disastri naturali (ultimo dei quali uno sfregiante – vedi caso – maremoto nel mar Egeo) convinse l’Imperatore che essi fossero originati da una presunta ira divina contro la venerazione delle icone. Fin qui è storia. Gli adoratori delle immagini sarebbero precipitati nell’eresia perché pitturando l’immagine di Cristo avrebbero istoriato solo la sua natura umana; di conseguenza le immagini sacre vennero annientate perché arpie bestemmiatrici.
Adesso c’è da capire se ogni possibile adorazione esasperata ci piace proprio molto (sì), se l’eresia ci piace proprio molto (sì), se l’arte sacra ci piace proprio molto (sì). Ma soprattutto c’è da capire quale sacralità vada salvata. Perché non tutta l’arte moderna/contemporanea nasconde in sé cadenze sacre. E anche la sacralità va meritata. Stesso dicasi per il martirio: sublime ouverture per madama santità. Perché (non) c’è dio, (non) ci sono gli dèi, ma ci sono troppe deifiche presenze che ingombrano con la loro dote di processioni-finto-pasquale, offuscando ogni possibile nozione e/o atto di fede. Che poi ci sia sempre bisogno di creare icone a tavolino, che poi sia sempre “sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi” (com’ebbe a dire Brecht) ormai è cosa certa. In mancanza di quei Misteri (dei quali siamo, di fatto, figli orfani) si ri-definiscono a colpi di stronzate nuovi miti e nuove mitologie che hanno il tempo di sussistere e vivacchiare molto meno dei famosi-famigerati quindici minuti. In ragione di questo c’è bisogno di annientare un bel po’ di immagini. Non perché esse siano sacre, ma perché non lo sono. Iconoclastia al rovescio, quindi. Manrovescio.
È che ho la presunzione di credere che alla fine avesse ragione Mark Rothko:
Il dipinto non può vivere nell’isolamento. Ha bisogno dello sguardo dell’osservatore sensibile per potersi ridestare e sviluppare. Senza quello sguardo il dipinto muore. Ogni volta che ci si congeda da un’opera e la si consegna al mondo si compie un gesto rischioso e spietato. Quante volte il nostro dipinto sarà irrimediabilmente offeso dallo sguardo volgare o crudele di coloro che vogliono riempire l’intero universo della loro meschinità, della loro impotenza!
Ergo: c’è bisogno di sacralità e di coraggio. Ma questo vale sempre. Se quindi, di conseguenza, consideriamo l’arte come un tramite quasi mistico che metta in contatto con l’ altro, ne consegue che c’è bisogno di bellezza, qui (probabilmente anche lassù, ma questo è un’altra storia). E per bellezza intendo tutta quanta la bellezza, sino alla sua iperbolica esasperazione: l’autentico brutto. C’è da essere graziati solo se si può essere anche dis-graziati, altrimenti non vale. Ma c’è bisogno di una bellezza-bella e di una bellezza-brutta che siano anche sacre. E questa è una kora diffici-lotta. Kora perché ci piace l’immagine (eccola là: tradita e storpiata) di un vuoto che funga da recipiente e perché – inutile barare – ci sa che pure Platone avesse ragione.
In ragione di questo l’icona è acheiropoietos: svincolata da ogni rappresentazione sensibile e terrena. È per tanto un mezzo, “una finestra apribile nei due sensi” (Pavel Florenskij), lo iato che squarcia il confine tra terra e cielo, tra mondo sensoriale e cosmo incorporeo. Una trasfigurazione che conduce l’immagine non-umana ad acquisire, quindi, tutto il valore di un’autentica unio mystica, d’una percezione animica nei cui meandri la solenne vox dei congiunge i due territori nell’atemporalità dell’attimo rituale della contemplazione. Una imaginatio agens che trasmuta ogni possibile teopatia, costituendola non già come teofania fine a se stessa, bensì come autentica immagine divina fissata dalla divinità stessa sull’eikona, quasi a realizzare, al fine, una vera e propria teologia visiva. Per questo la contemplazione umana non può rivolgersi alla raffigurazione di dio, perché esso non figura sull’icona. Esso è l’icona. E l’avvicinamento d’ogni artista alle sue visioni è il medesimo avvicinamento che il fedele attua al cospetto dell’ustione iconica. Una dialettica tra un dentro e un altro dentro.
La stessa dialettica che conoscerà quel santo-frate-asino meglio conosciuto come Giuseppe Desa da Copertino. Il frate in grado di levitare. Quello che, per far contento il morto (semprelui, sì), cazzeggiava tutto il giorno a bocca aperta inciampando nelle code di quell’esercito di santi in fuga dal paradiso, ma che tuttavia ebbe la grazia di una autentica scampagnata mistica con quello che era rimasto di un quadro della vergine staccato dal muro. Vale a dire con la sagoma del dipinto, il telaio, con la cornice che si evidenziava nel suo biancore, là, stagliata contro il biondo del muro, che sottolineava qualcosa di ancora più bianco di quell’altro bianco, un vuoto manifestato. Dalla cella d’isolamento gli avevano portato via il dipinto della (sua) madonna. Ma era rimasta l’ombra della tela sul muro. E, nel mezzo a tutto questo, lui, lì, inguaribilmente asino e scimunito, lui – calamitato da tutta quella cosa bianca – si trasferì in un’immensa estasi, dacché la sua preghiera si era interiorizzata e non aveva più bisogno dei ritratti di dio, delle parvenze, del superfluo delle storie dell’arte, del per-non-morire. Perché già solo adorando l’ombra polverosa di quello che era stato appeso un tempo lì aveva scoperto che la grazia è la grazia. E che la grazia non ha bisogno di marie che sfacchinino per casa.
Pertanto: éikóna si traduce con “immagine”. Eikénai con “essere simile”, “apparire”. Si vocifera pure che l’etimologia della parola arte derivi dalla radice ariana ar- che in sanscrito significa “andare verso”. Vien da sé che c’è poco da lambiccarsi. O si è capolavoro (Carmelo Bene docet) oppure tanto vale occuparsi di altro. Poiché l’autentica icona è epifania del divino ed essenza/assenza di sacralità e divinità. Del resto, saccheggiando ancora a Carmelo:
Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono
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1 Comment
Be…questo testo é un capolavoro…grazie