ARTICOLO PUBBLICATO SUL BLOG DI MICHELE DOLZ – PIETRO GERANZANI: Carne e cenere, pittura e vanità
Quando un corpo arriva al Manikarnika Ghat viene per prima cosa lavato nel Gange, poi disteso sulla pira funeraria con la testa a nord e i piedi a sud, cosparso di polvere di legno di sandalo e poi gli occhi coperti con il Ghi, il burro chiarificato; infine viene asperso di qualche goccia d’acqua del sacro fiume.
Dopo poco gli addetti alle cremazioni, straccioni come gli stracci e le spazzature sparpagliate dappertutto, trascinate dalla corrente lenta e incastrate tra le sterpaglie che fanno mucchio sulla riva, spogliano il sudario dei veli porpora e oro, e tutti questi strati li gettano a terra in mezzo ai cani e ai resti delle cremazioni precedenti, dove s’accartocciano e accumulano fra pezzi di legno, paglia, altra stoffa, e la sottile lamina dorata dei lustrini che prima addobbavano i cataletti, che riluce dappertutto.
Il sudario è bianco, con la testa morta libera, giallastra. I parenti e i cari si alternano ad ammonticchiare legna sul cadavere fino a ricoprirlo per intero. Ora è pronto per le fiamme, che cominceranno a bruciare i capelli, e si consumerà fino a lasciare i pochi resti delle ossa più dure, quelle del bacino, ai cani in attesa, indisturbati.
Io in tutto questo cammino libero, in virtù di un accordo con i gestori del Ghat, un accordo mafioso che mi è costato caro, s’intende, ma che mi ha permesso d’avvicinarmi da privilegiato fino al limite delle fiamme, fino a vedere i corpi neri e deformati dal fuoco spezzarsi e sciogliersi a un passo da me, con il naso tappato dalla cenere densa e bruciante.
Cos’è la carne? Che debole consistenza ha! E la nostra caducità è diventata uno spettacolo che si consuma veloce, e io sono in piedi lì, fesso, nell’inferno, sulle rive del Gange, o dello Stige. Ed è adesso che mi chiedo, nel rituale macabro, qualcosa che sembra inavvicinabile al pensiero. Brancolo.
Il fuoco ha reso nulli, di fatto ha cancellato, i fantasmi di linfa, sangue reticolare e flegma che hanno attraversato la storia degli uomini e poi anche quella della pittura, e anche la mia.
Di questi umori -che sono oggetto degli sforzi creativi degli artisti dai tempi del mitico racconto di Apelle e le narici del cavallo, che non trovava vita nel dipinto finché con gesto stizzito il pittore non lanciò una spugna intrisa di colore proprio sul muso opaco della bestia, e improvvisamente l’humor, tam parvula materia, fece il miracolo- sembra non restare che cenere.
Perché, mi chiedo ora, ho passato la vita a cercare di rivivere il gesto di Apelle, illudendomi creatore per un istante, immaginando vera la carne di Rembrandt, del Greco, di Tiziano e di Soutine? Cosa mi rimane dunque?
È polvere e non sangue, non linfa né flegma.
Del corpo vivo rimane null’altro che questa cenere, di un bianco calcinato, stridore su tutti i colori, ed è capace di darci l’emblema di un fatto, non già il suo simbolo didascalico, ma quel fatto individuato in tutta la sua energia: la morte, terribile, che nella bellezza del bianco permette alla forza dello spirito di non inorridire davanti alla consunzione della carne.
Ma prima? Prima cosa c’è? Continuo a essere aggrappato a ciò che c’è prima, pieno di dubbio brancolo, appunto, ma tento. La carne viva, ecco cosa sento: devo continuare a vivere. Sento l’ossessione del colorista, variare. Vicissitudo, oscillazione, il cambiamento. Nient’altro che il continuo passaggio degli umori, quindi passaggio e sventura del colorito. E basta un niente e i piccoli capillari si gonfiano e la pelle, il velo, s’arrossa.
Rembrandt è attento a queste mutazioni lievi e non simula ma emula. Riesce. Nell’Autoritratto con la camicia ricamata, del 1640, stretto nella ricca pelliccia, suda, la pelle è lucida e le guance arrossate.
Ecco la linfa, ecco il sangue. Ecco gli umori. Ecco, riesco a vedere anch’io l’incarnato. Ma “in” sta per dentro? Io vedo dunque dentro la carne? Rembrandt mi aiuta in questo viaggio impossibile? Forse mi guida, ma il sentiero conduce alla follia. È ovvio.
Con gesto incalzante e massimamente efficace Gerhard Richter oggi, nella pratica reiterata degli Abstrakte Bilder, rompe gli indugi, e finalmente ci mette di fronte alla verità, una delle possibili, della pittura. Per secoli si è proceduto per velature. La forma è stata inseguita e dominata con un alchemico processo di sovrapposizioni. Trasparenze che alterano gli strati sottostanti, ma non li cancellano, semmai concorrono a vestire. È ciò che dà pelle, cioè aspetto, ma anche rivestimento. E la pittura che procede per velature, veste, ossia riveste strato dopo strato, chiudendo sotto infinite pelli il sangue, l’infiammazione, la furia. Lo spirito vitale. Alcuni come Rembrandt, il Greco, e Soutine appunto, hanno fatto della pittura materia densa e spessa. Materia che non lascia trasparire nulla di quel che c’è sotto. L’incarnato è. Non emerge ma è. La pittura stessa è la carne.
Il groviglio, la pasta: è indistinguibile dalla carne mia e vostra. Ceci est une pipe, sarebbe costretto ad ammettere Magritte. Non c’è differenza.
Richter dipinge gli Abstrakte Bilder con una specie di grande spatola che sembra una lama con la maniglia. Dopo aver applicato uno spesso strato di pigmento, ci trascina sopra un pigmento nuovo con la lama/spatola e straccia la superficie colorata.La ferisce. Da sotto emerge il primo strato. Non è una velatura. È la carne densa e spessa, quella stessa del bue squartato di Rembrandt e di Soutine che svela se stessa e crea un vertiginoso cortocircuito nel linguaggio convenzionale della pittura. Come riesce a fermarsi Richter? Tira, strappa e mortifica la materia in un’azione febbrile, e il desiderio dell’incarnato produce il deturparsi dei corpi. La carne si fa informe e il feticcio cede. La pelle smette di essere l’indistinto limite dei corpi.
Come riesce Richter a restare lucido dove Frenhofer ha fallito?
Come è riuscito Rembrandt mentre dipingeva la manica di Isacco nella sposa ebrea?
Io so dipingere, e lo dimostro agli occhi di tutti, ma dubito. Io fingo, io esisto, mi dico senza sosta. Fingo la carne. Quell’incarnato che nei secoli è diventato il fregio della competenza del pittore. Da un lato, come difficoltà, risponde a quanto di più “colto” possa esserci nell’esercizio della pittura; dall’altro come follia, presenta il rischio che l’artista s’intestardisca nella vanità di mostrarsene esperto; che il suo occhio si guasti al punto di non sapersi più fermare alla superficie.
Questo equilibrio tiene tutti noi pittori sospesi di fronte all’abisso della follia di Frenhofer, ma ai miei occhi, oggi che vagabondo tra le fiamme del Manikarnika Ghat, per la prima volta si è mostrata prepotente la possibilità che questo esercizio, nell’inseguimento della vita attraverso la pittura, nel tentativo d’emulazione del gesto divino, simulazione direi meglio, che alita la vita nella zolla inerme, sia esercizio vano, nel senso che insegue una vanità, forse sterile, forse letale, ma come tutte le droghe potenti, una volta assaggiata, urla il suo richiamo anche di fronte all’evidenza del fallimento.
excerpt 2 from don’t touch the god from Pietro Geranzani on Vimeo.
Estratto da Don’t touch the god di Pietro Geranzani 2016 Video. Min 10:16 (69:52) Colore. Apple ProRes 1920 x 1080. Elaborazioni musicali di Pietro Geranzani con estratti da Delia Derbyshire & Barry Bermange I’d like to believe in God, but… From: Amor Dei: a vision of God Inventions for radio Unacc. 16 Nov 1964 e Chöd Nothing Is From: Various – Lucifer Rising Athanor – ATNR 005 1999
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