That’s Hollywood, baby!, rispondeva Humphrey Bogart a chi gli faceva notare le imperfezioni nei suoi film (informazione di servizio: la battuta originale era That’s the press, baby! e più avanti e in tutt’altro contesto i commentatori politici fuori dal coro l’avrebbero ri-ri-mutuata in That’s economy, stupid!, per permettere alle verginelle del politicamente corretto di venire assalite dalla dura realtà. Ma questa è un’altra storia).
Maurizio Temporin mette in scena una Hollywood (e una Bollywood, e una Cinecittà…) ucronica: un cinematografo alternativo, fantastorico, fatto di carta e appeso al muro, la finestra che Leon Battista Alberti voleva aperta sulla pittura e che qui invece dà su una realtà ipotetica, immaginaria, basata sul “come sarebbe, se”. In una parola: ucronica, appunto.
Queste locandine “incompossibili” sono iconografie dall’esistenza non comune: raccontano una storia che non c’è stata ma poteva esserci, in un mondo magari più scanzonato (ma non troppo) dell’attuale, dove non necessariamente dalle fontanelle lungo la strada scende vino ma che sicuramente rappresenta la possibilità -tutta da scoprire- che Stanley Kubrick abbia girato il “Rocky Horror Picture Show” o Federico Fellini “Jurassic Park” -una fissa, quella di Temporin per i dinosauri.
Cinestesie rappresenta una semantica visuale dei mondi possibili, un po’ come ha fatto il filosofo americano Saul Kripke nel campo della Logica modale anziché in quello dei cinematografari, ma in maniera decisamente più noiosa. C’è tutto, qui, per dirla con uno slogan: divertissement e non solo.
I colori, i font, la disposizione degli elementi, tutto concorre, in ogni locandina “ucronica”, a rispettarne l’iconografia “reale” ma meravigliosamente ipotetica, se davvero fosse stata, nel mondo là fuori,la locandina di un film fatto e finito. Nulla è lasciato al caso, nel nome di una (possibile) fedeltà a una realtà controfattuale.
Se, in questa Terra di Ucronia, Temporin fa girare ad Alfred Hitchcock “Mary Poppins” non è solo per onanismo intellettuale, ma anche e soprattutto (e qui sta il bello: tutto diventa arte, basta darsi da fare) per aprire le porte, non della percezione, ma dell’immaginario di ognuno di noi, facendoci quasi diventare i registi e gli attori e gli sceneggiatori e gli spettatori di quel film-che-poteva-essere-ma-non-è-stato. Ancora una volta il pubblico interagisce con l’opera, un classicone dell’arte visiva contemporanea.
E’ Cinestesie, bellezza, e tu non puoi farci niente.
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