Cosa significa fare un’esperienza estetica? C’è un modo dilettantesco di farla e ce n’è uno più impegnativo, perchè coinvolge l’apparato neuronale di chi l’arte la fa e di chi poi ne fruisce. Insomma ci preserva dal mandare all’ammasso il cervello. Insomma, ci fa pensare.
PUBBLICATO SU Kritika onpaper # 0 – maggio 2009
Non so voi, ma io da piccolo mi mettevo davanti allo specchio stupendomi con sgomento d’esistere. Per Paul Goodwin (Hull, Yorkshire, 1951; vive e lavora a Torino), invece, la mistica suggestione dell’autocoscienza passa attraverso lo specchio della pittura. “L’essere si trova nel guardare“, scriveva dieci anni fa il Nostro. Ricerca di sé che tuttavia non prende la forma dell’autoanalisi: fare pittura significa per Goodwin speculare attraverso le immagini. Un’attitudine filosofica, pratica quanto la pittura, che condivide con il Misticismo del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein l’afflato spirituale del mostrare ciò che non può esser detto: il senso della vita e il perenne stupor dell’esistenza. Il mondo è tutto ciò che accade, a volte con l’apparente disordine di una nave senza timone.
E il potente valore iconologico dell’umanità alla deriva rappresentato da La Nave dei Folli di Sebastian Brandt è il referente simbolico delle riflessioni condotte da Paul Goodwin sul sé e la sua relazione con il mondo. Ma anche della relazione vis a vis fra il quadro e l’osservatore.
La Nave dei Folli non è una nuova tematica del pittore inglese: una tela risalente all’83 raffigurava un pensatore seduto sulla prua di un’imbarcazione sospesa in un ambiente caleidoscopico, allegoria non di una umanità storica e determinata, ma del concetto stesso di umanità astorica e collettiva. Proprio a partire da questo pretesto simbolico, le pitture di Goodwin fanno pensare alle pagine di un diario su cui viene vergata un’antropologia filosofica. Che ha per oggetto il proprio sé in quanto soggetto storico d’esperienza nel mondo. L’alfa e l’omega di una filosofia dell’inquietudine.
Definire il soggetto e l’oggetto. Cos’è questa cosa, questa roba davanti a me? Per quale ragione ci sta? Perchè fu creata? Perchè questa, in tale modalità?
E il novello Sartre – chissà, sembra abbia letto La Nausea – filosofeggiava su una sedia, conversando con l’altro pictor optimus, Sean Shanahan. Che nel corso del dialogo – rigorosamente non socratico – già dieci anni fa ci rubava le parole di bocca, a noi di Kritika:
Questa stronzata della pittura che è morta o è viva, uffa!La maggioranza dei quadri che vedo, sono assolutamente delle stronzate! Se questa è pittura, allora diciamo che la pittura è morta. Che spreco di tempo…preoccuparsi se un mezzo sia valido o meno – chi può negare che anche la grande arte sia stata dipinta…
E in tempi in cui il dibattito sulla vitalità della pittura ha ripreso piede, le parole di Shanahan ci paion tutto fuorché dal sen fuggite. Osservare un quadro di Paul Goodwin significa rendersi conto che il pittore è un filosofo che indaga alla fonte del significare visivo. Ma “indaga” è inesatto: più opportuna la categoria filosofica dello stupore. Peraltro il filosofo Silvano Petrosino ci scrisse un bellissimo libretto, anni fa, titolandolo, per l’appunto, Lo stupore.
Lo abbiamo visto tempo fa, Paul Goodwin, in occasione di una sua personale al Museo Diocesano di Milano. Tutte le tele raffiguravano le navi dei folli, immagini attinte dal libro Stultifera navis di Sebastian Brandt, l’umanista e consulente editoriale ante litteram vissuto a cavallo fra XV e XVI secolo. E altresì ispirate all’universo simbolico del tardo Medioevo – Hyeronimous Bosch, of course, ma anche la massa delle incisioni e xilografie popolari. Anche il quadro più minimal di Goodwin è sempre figurativo. Si veda l’opera dal titolo wertmulleriano, La nave dei folli, senza timone, che si dibatte disperatamente: vista da sotto (Rudderless, wildly flapping ship of fools, seen from below). Questo pittore/filosofo sa fare una cosa soltanto: arte. Non può far altro che risuonare col mondo là fuori. Piccola composizione sonora che come la musica, Platone ce l’insegna nel Timeo, armonizza il mondo. Fisico e spirituale (il percepito, il sensuale, l’animale. Il corpo? La storia, la filosofia. La mente? L’anima?). Goodwin il monista s’interroga. Astratto e figurativo sono termini utili in certi contesti o, come succede più spesso, per non perdere tempo. Ma sono già carichi di teoria. In verità, Paul Goodwin non ha mai fatto un quadro astratto in vita sua. E quando l’ha fatto, è stato per sbaglio o per gioco. Non si potrebbe allora dire che le sue navi sono “astrazioni” in quanto espressione sensibile di un’idea? Con licenza poetica, certo che si può. La categorizzazione è nata per morire!
Una particolarità di Goodwin è la finzione dello sfondo: quando la superficie bianca è limpidissima, il fondo eburneo dei quadri simula l’estinzione di sé. Mentre quando è “magmatico”, finge di essere. La pittura è finzione. Per questo il mistico Platone non era tenero con la conoscenza sensibile. In compenso era un fanatico della mantica. Non divaghiamo. La capacità della pittura di toccare la verità sorge proprio dalla sua bugia primaria. Illusionismo vecchia maniera, o concretezza minimale, poco importa: what you see is what you see è il crisma tautologico di Frank Stella. Pittura concepita come evocazione dell’esistenza, heri dicebamus. Ciò che in Inglese si esprime con il termine summoning, celebrazione e completamento del mondo:
Con la pittura non puoi mentire; alla fine laggiù c’è tutto, come vedi: costruito per il tuo sguardo. Forma e contenuto.
L’arte contemporanea può soffrire dello stesso male della Civiltà: l’esser senza parole. Heidegger a un certo punto smise di scrivere Essere e Tempo per il venir meno del linguaggio. Wittgenstein disse che l’unica cosa veramente importante del suo Tractatus era ciò di cui non si era parlato. E generalmente quanto eccede il sensibile soffre di una mancanza: la difficoltà della sua adeguata ostensione. La capacità di un’epoca di esprimere sé nel corso della Storia procede per ondate successive di chiarezza, separate da risacche in cui le energie cognitive, tornando indietro su se stesse, rimescolano i ciottoli sullo sfondo e riprendono la direzione facendo nascere nuovi significati. Lasciando come temporaneo residuo archeologico la schiuma. Che svanisce sulla spiaggia del passato. E Paul Goodwin, come Heidegger, come Wittgenstein, come tutti colore che prima e dopo di lui hanno sentito e continueranno a sentire sopra sé, dentro sé, la difficoltà di incarnare pseudo concetti che vanno al di là della ragione, coglie il limite relativo all’oggettivazione adeguata di un’unità tra forma e contenuto. Un modo di darsi solistico, se ci si passa il termine ormai sporcato dalla comunicazione globale, dell’opera d’arte. Si vedano i suoi dipinti su alluminio, con quei lumps – grumi di materia colorata – che se ne stanno sospesi a mezz’ari come fra terra e cielo, oppure al contrario lambiscono i bordi del quadro. Essi determinano differenti relazioni formali con l’osservatore ed enfatizzano non solo la differenza tra le relazioni sussistenti nel quadro e quelle esterne al quadro stesso (lo spazio che l’opera crea attorno sé). Ma anche e forse soprattutto indicano lo sforzo di cercare – e trovare – un altro livello di relazioni: fra il supporto e l’immagine che esso contiene – il quadro-oggetto – e fra l’opera d’arte in sé e l’osservatore – soggetto di esperienza estetica. Un pittore dà forma a anestetica dell’inquietudine, dicevamo.
This real world, of being in consciousness, this absolute sense of awareness of self and of other, and the magnificent range of perception and experience that leaves it’s trace in the ocean’s schiuma that gave birth to Venus…
Lo lasciamo così, perché la sua purezza resti incontaminata. E per adesso basta!!!!
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