PADIGLIONE INTERNAZIONALE DELL’ASIA CENTRALE

0 Posted by - December 10, 2013 - Approfondimenti, Recensioni

IL SOSPETTO PER GLI STARNUTI DELLA STEPPA

A Venezia, per la Biennale d’Arte Contemporanea, era visitabile il Padiglione Internazionale dell’Asia Centrale. Commissionato dallo HIVOS (Istituto Umanistico per lo Sviluppo della Cooperazione), il suo allestimento ha coinvolto la bella cornice del Palazzo Malipiero. Il Padiglione dell’Asia Centrale precisamente era stato curato da due artisti, trasferitisi in Norvegia: Ayatgali Tuleubek (kazaco) e Tiago Bom (portoghese). Le cinque repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale (ergo il Turkmenistan, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Kazakistan ed il Tagikistan) attraversano un periodo di fermento politico. Il caratteristico miraggio dell’occidentalizzazione si scontra con la necessità d’una giustizia sociale. Qualcosa da percepire dentro una conflittualità invernale.

Conosciamo la freddezza dell’apparato sovietico, la quale, fra le steppe ed i deserti dell’Asia Centrale, si sarebbe lentamente depositata. L’inverno sembrerebbe la stagione della vita che copra se stessa. Le giornate s’accorciano, favorendo il calare del buio. Con la nebbia, noi percepiremmo l’appesantirsi dell’aria. La vegetazione sarà in parte rinsecchita, e comunque l’infiorescenza scarseggerebbe. Solo la freddezza della neve conferirà virtualmente una chioma, coi rami ad irrobustirsi nel lento deposito della loro linfa. L’apparato politico dell’ex-Unione Sovietica, nei cinque paesi dell’Asia Centrale, oggi fermenterebbe sotto le conflittualità latenti della steppa e del deserto. Il Mar Caspio, nonostante la sua vicinanza al più caldo Medio Oriente, continua a percepirsi freddamente, chiuso come un lago. La vitalità della steppa calpesterà se stessa: gli steli della graminacee timidamente s’inchinano al vento. L’aridità del deserto fermenterà dalle rocce assolate, ma verso l’astrattezza della loro frammentazione.

L’esibizione veneziana al Padiglione Internazionale dell’Asia Centrale è stata intitolata Winter (Inverno), da un poema del kazaco Abay Qunanbayuli (il quale visse nell’Ottocento). La commissione aveva selezionato otto artisti, provenienti da paesi diversi. La percezione invernale (cioè latente) della conflittualità certo sociale, ma a volte anche politica, positivamente spunterebbe come l’erba della steppa. Nella democrazia, i diritti civili sarebbero dilatati il più possibile, sotto la timidezza del dialogo sociale. Nella steppa, avremo il simbolismo delle graminacee, inchinate sotto la condivisione del cielo (cui mancheranno i ritagli, fra i rami degli alberi). L’inverno rinsecchisce la vegetazione, ma solo così in primavera si vedrà la favorevole germinazione. Dalla conflittualità politica (quando la popolazione non sopporti più d’inchinarsi al governo centrale, fra la foschia del malessere sociale), poi potrebbe aprirsi la condivisione d’una coscienza civile. La percezione della steppa, dunque, sarà freddamente (astrattamente) depositaria d’una timida germinazione, in cui la singola persona rinunci a se stessa. Bisognerà rientrare nella comunità. Lo stelo della graminacea ci parrà simbolicamente inaridito solo nella frammentazione più positiva del pensiero democratico, sopra la grande distesa dell’aggregazione sociale. La politica non può impedire la conflittualità del governo: la minoranza resta! Quantomeno, seguendo una coscienza civile, si deve dilatare al massimo il rientro sulle proprie idee (favorendone l’aggregazione sociale). Esteticamente, la percezione invernale della steppa o del deserto ha il simbolismo della primavera politica. Le graminacee si frammentano per aprirsi alla condivisione del cielo. Le rocce desertiche si depositano lentamente, come la coscienza civile dalla conflittualità sociale.

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Aza Shade, Installation view of The Disappearing City, 2011, Single channel video, 4.30 min, Courtesy of the artist

A Venezia l’artista Aza Shade (cresciuta in Uzbekistan ed in Kirghizistan) ha esibito una videoinstallazione. In quella, si racconta il conflitto generazionale, fra due donne. Precisamente, una madre ricostruisce una sorta di siparietto etnografico. Ad esempio, lei distende un tappeto, all’aperto, decorando la terra molto solitaria. Si vede la profondità della steppa, tagliata centralmente da un binario morto. Qualcosa che per noi ospiterebbe un piccolo carrello, terminante in riva all’acqua, dove la comparsa d’una barca in legno avvierebbe il commercio del pesce. Si vede anche un ripostiglio (che forse conterrebbe i remi, le corde, le reti ecc…). Una bicicletta del tipo a Graziella favorirebbe l’attività commerciale. In realtà, la madre si percepirà nella mera sussistenza del proprio siparietto. A lei interessa immortalare l’ambiente circostante, per venderlo banalmente come la più economica cartolina da viaggio. I turisti avrebbero dovuto fotografare il tipico siparietto della pesca, forse? Naturalmente, c’è la desolazione della steppa, anche un po’ paludosa. Qualcosa che scoraggi l’inoltrarsi avventuroso dei turisti… Non si percepisce il marketing delle cartoline da viaggio, bensì la sussistenza della loro fissità spaziotemporale. Così, la figlia contesterà la presunzione della madre. Bisognerà abbandonare il tradizionalismo etnografico. La figlia avvierebbe un vero commercio, scambiando i vestiti locali (astrattamente lunghi), per importare quelli occidentali (corti, e dunque più sbarazzini o perfino sexy). Esteticamente, è la metafora d’una conflittualità freddamente latente nella steppa dell’autorità. La madre, cercando d’immortalare l’ambiente circostante tramite la sua cartolina, si limita a depositare i valori tradizionali (che lei accetta a prescindere). Un laccio che la figlia di contro spezzerebbe, così da emanciparsi. La barca ha un suo simbolismo, esteticamente. In quella noi salpiamo, perdendo gli ancoraggi alla terra. La barca affronterà la grande distesa dell’acqua, dove la ristrettezza dell’uomo s’aprirà alla condivisione del cielo. La madre invece resterebbe ancorata al binario morto del tradizionalismo soltanto ingenuo (incapace d’ammodernarsi), soprattutto mistificandolo in via quasi esotica (con la complicità dei fotoamatori in tour). Il tappeto sembra davvero intimidito, decorando il rifugio dei pescatori nella sua germinazione stantia, per la maniera del siparietto. Nella videoinstallazione di Aza Shade, le tipiche graminacee della steppa farebbero starnutire la fissità del tradizionalismo. C’è un fotogramma in cui la figlia pare caricarsi virtualmente sulle spalle il peso della barca, ormai inutilizzabile. Uno starnuto accade all’improvviso, come lo sbotto contro l’autorità (anche genitoriale, per l’adolescente). Esso si trascina, mentre qui la figlia cavalcherebbe le onde soltanto sconosciute (e dunque imprevedibili) del marketing occidentale. C’è un fotogramma sul pontile ligneo, sopra il ghiaccio. Vi passano le due donne, in bicicletta (dallo sfondo verso di noi). Nelle zone più fredde della Terra (come fra le montagne del Kirghizistan, lo stato che Aza Shade rappresentava, alla Biennale di Venezia) il permafrost causa l’ondeggiamento delle costruzioni artificiali. Qui tornerà la percezione imprevedibile o sconosciuta della germinazione invernale, che simbolicamente frammenti il deposito del tradizionalismo, confidando di dilatarlo nella primavera del conflitto democratico.

Emil Cioran ha avanzato una filosofia dove s’ironizzasse fra l’esistenzialismo ed il nichilismo. Per lui, l’Essere si percepirebbe nel proprio sospetto. Con la fenomenologia, noi sempre ci poniamo verso qualcosa. Si ha coscienza d’un tavolo, d’un numero, d’un desiderio, d’un ideale ecc… Per Cioran, tale necessità del posizionarsi su qualcosa (tanto materiale quanto astratta) si percepirebbe in via sospettosa. L’Essere pare a ritirarsi da se stesso, continuamente, tramite la coscienza dell’uomo. Sospettando, noi ci poniamo verso qualcosa che si nasconda. Se un tavolo, un numero, un desiderio, un ideale ecc… è comunque (per la nostra coscienza), allora tutti quelli s’annulleranno fra di loro. Noi li percepiremo nel ritiro da se stessi. Possiamo unicamente sospettare che esista la totalità, perdutone il riferimento alla parzialità. La dialettica si percepirà in via nichilistica. Se un tavolo, un numero, un desiderio, un ideale ecc… è comunque (per la nostra coscienza), allora una semplice esistenza fonderà l’universalità dell’essenza. Chi sospetta non ha bisogno di conoscere (in via concettuale). Gli basterà che qualcosa si ritiri da se stessa, essendo comunque (tanto realmente quanto solo virtualmente). Così, l’esistenzialismo di Cioran si percepisce in via negativa. Chi sospetta inevitabilmente ha una certezza solo nella mancanza di se stessa.

A Venezia, gli artisti Kamilla Kurmanbekova ed Erlan Tuyakov (entrambi nati in Kazakistan) esibivano un’installazione, riconfigurando la tradizionale yurta. Con questa, s’intende l’abitazione mobile adoperata dai popoli nomadi, nell’Asia Centrale. Normalmente, nella yurta s’assemblano più segmenti di legno, dai loro incroci ad ‹ X ›, impiantandoli in cerchio. Per la copertura sovrastante, funzioneranno le stuoie ed i tappeti di feltro. I due artisti hanno accresciuto la nostra percezione nomade della yurta. Sopra l’incrocio dei segmenti lignei, il feltro può aprirsi (ad impedire virtualmente la protezione dagli agenti atmosferici). Il visitatore del Padiglione camminerà dentro la yurta. Questa non si percepirà più nella sicurezza del cerchio accogliente, bensì nell’incognita di trovare l’uscita. La yurta degli artisti kazachi sarebbe solo transitoria. Non la potremmo abitare neppure per una notte. Avendo la novità del corridoio, la yurta si riconfigurerà come una ciambella! Esteticamente, noi percepiremo il suo ritiro in se stessa. Tramite il nomadismo, si vive nel contempo dappertutto e da nessuna parte. Solo chi abita stabilmente non può nascondersi. I popoli nomadi si ritirano di continuo, sospettando che la semplice esistenza fondi l’essenza della totalità. Loro si fanno vedere solo negativamente, mancando a se stessi. I due artisti dal Kazakistan ci aiutano a percepire l’incognita del nomadismo. La yurta di Venezia ha il feltro aperto, e la ciambella rientra in se stessa, come l’ipnotica spirale. E’ suggestivo sapere che normalmente i pali s’incrocino tramite la ‹ X ›: la lettera dell’incognita. Il visitatore del Padiglione, entrato nella yurta, sospetterà il suo disagio, mancandogli la protezione (per il feltro aperto ed il corridoio spiroidale). Sarà meglio ritirarsi all’esterno. Simbolicamente, la yurta di Venezia potrebbe accusare il rischio dello stanziamento socioculturale. Solo chi nasconda i suoi pregiudizi all’esterno accetterà d’aprirsi all’incognita della loro condivisione. Il nomadismo, comunque, favorisce l’incontro!

Per Cioran, le idee (le essenze) letteralmente si ritirerebbero dalla loro particolarizzazione, fra gli enti. Noi avremo il sospetto che i secondi unicamente manchino le prime. Un esistenzialismo che le idee (o le essenze) dovranno negare, giustificando la loro preminenza. Cioran ha aggiunto che la vita si percepirebbe come la deviazione e l’avvilimento dell’Essere. La nascita si rassegna alla morte. La seconda si nasconde sul ritiro della prima. Se il tavolo, il numero, il desiderio, l’ideale ecc… sono comunque, così da negarsi fra di loro, allora quelli, riuscendo a vivere, avranno in aggiunta il sospetto che la morte unicamente manchi la nascita. Naturalmente, Cioran pensava al caso ben più realistico dell’uomo. La nostra vita svilirebbe il sospetto universale dell’Essere (continuamente negato dalla sua particolarizzazione), attraverso il doppione della morte che manchi la nascita. L’uomo però non può resuscitare, almeno sulla Terra, come le stagioni. Per Cioran, noi sviliremmo l’Essere.

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Ikuru Kuwajima, from the series Astana Winter Urbanscapes, 2010-2011, c-print, Courtesy of the artist

Al Padiglione dell’Asia Centrale, il fotografo giapponese Ikuru Kuwajima aveva rappresentato di nuovo il Kazakistan (paese in cui lui vive da tempo). Esteticamente, egli ama molto il paesaggio architettonico. Nel 1997, il governo del Kazakistan spostò la capitale ad Astana. Furono alzati più grattacieli, attraverso i quali la vita civile doveva percepirsi nella tropical resort di se stessa. La vegetazione abbondò di palme, lungo i piani dal pavimento addirittura sabbioso. Qualcosa che contrastasse le temperature tipicamente rigide del Kazakistan, nei mesi invernali. C’è una fotografia di Kuwajima in cui percepiamo il paradosso della megalomania architettonica, innanzi alla povertà del terreno stepposo. Tre grattacieli paiono spuntare come i funghi, dal fogliame delle case più vecchie. I vetri avranno uno squarcio centrale, che li ricolori calorosamente (tramite il giallo). La sua sinuosità contribuisce ad insabbiare la rigidezza del clima invernale. Nello scatto di Ikuru Kuwajima, la steppa innanzi ai grattacieli è innevata. In primo piano, qualcuno avrebbe impiantato la sua tenda. Nasce così il contrasto alla magnificenza dei grattacieli. La tenda, complice il gelo invernale, si percepirebbe come un igloo. La neve copre in maniera omogenea, diversamente dalla sabbia in spiaggia (che può ondularsi, esposta al vento). La scelta d’urbanizzare coi grattacieli tropicali andrà a svilire la povertà della steppa, avendola inutilmente raddoppiata. Pare che si voglia giustificare la mancanza d’un clima adatto al benessere, dichiarandola apertamente. Se le case più vecchie si seccassero come il fogliame, sotto la rigidezza invernale, allora i grattacieli le devieranno (tramite la sinuosità del vetro) sino a farle resuscitare, sognando il dolce accartocciamento della duna tropicale. Una steppa manca a se stessa, percependo che questa si rassegni alla condivisione del cielo, dilatato al massimo (senza le chiome alberate), nell’inchino degli steli. Allora, è completamente inutile (e svilente) raddoppiarne la negazione, dichiarata dal sogno d’una risurrezione sulle dune tropicali. Anche queste s’inchinerebbero, ma nel benessere del calore vitale.

Più in generale, converrà che si sottragga ogni grandezza al pericolo della sua magniloquenza. Il doppione della morte, che manchi la nascita, andrà a svilire l’Essere con l’intellettualismo della coscienza. Le idee (le essenze) si rassegneranno alla loro inutilità, annullando le particolarizzazioni sotto la magniloquenza dell’universale. Per Cioran, invece l’Essere più semplicemente sottrarrebbe (ritirerebbe) se stesso, differenziando la realtà. Manca completamente il carico d’un finalismo, di contro alla vita (quando la nascita cresce per la morte). L’Essere si pone per il suo nascondimento (differenziando la realtà), mentre la riflessione concettuale ci nasconde il suo porsi (sotto la pienezza dell’idealismo). Per sottrarre una grandezza al pericolo della magniloquenza, noi principalmente ironizzeremo sulla prima, nell’insonnia o nell’eresia della seconda. Sia convinti sinceramente da qualcosa, sia di contro criticandola, questa si percepirà nel carico della nostra inutilità, giacché noi strettamente non le apparterremmo. Cioran preserva sia l’esistenzialismo sia il nichilismo.

Gli artisti Anton Rodin e Sergey Chutkov (entrambi nati in Tagikistan) avevano scelto le pareti del loro padiglione per appendervi una serie di missive. Queste sono state realmente scritte, da diverse persone. Più precisamente, gli artisti avevano coinvolto i loro conoscenti nel Tagikistan, chiedendo loro come se la passassero. Le lettere ci raccontano d’un tessuto sociale abbastanza problematico. Il Tagikistan, lasciata l’Unione Sovietica, purtroppo dal 1992 al 1997 conobbe la guerra civile. Ai due artisti, ora interessava un giudizio complessivo, sviluppato da connazionali d’etnia e cultura differente. C’è un mittente che ad esempio pare rassegnato: un’altra guerra civile potrebbe aprirsi da un momento all’altro, mentre le forze internazionali di pace chiederanno senz’altro qualcosa in cambio. Prettamente, lui si lamenta che ai giovani tagiki nessuno insegni la protesta solo pacifica, rispettando la democrazia. Tutto deriverebbe da un disfattismo generale, allorché non si creda più a nulla. Un secondo mittente avverte il contrasto fra le bellezze del Tagikistan (ricco di frutti, cotone, verdure ecc… intorno alle montagne sempre imbiancate) e l’emigrazione dei suoi connazionali, per la maggiore in Russia. Persino si scapperebbe per futili motivi (contro l’alta tassazione, e la mancanza del riscaldamento o dell’elettricità). Ma vivendo altrove alla fine non cambierebbe nulla: si rischierà d’affrontare i medesimi problemi. Esteticamente, le missive raccolte da Anton Rodin e Sergey Chutkov ci faranno percepire il Tagikistan nella sottrazione sociale di se stesso. Il popolo sarebbe negativamente rassegnato. Alla sottrazione degli agi civili (come l’elettricità oppure il riscaldamento), corrisponderà l’insonnia dei valori in cui credere. La stessa protesta dei connazionali qui accade un po’ di nascosto, tramite la loro spersonalizzazione sulla missiva. Quantomeno, il ritiro della posta diventerebbe eretico. Agli occhi dell’arte, la coscienza civile dei tagiki ora maturerà, contro il loro farsi rinchiudere in casa, da parte dei politici più estremisti (colpevolmente incapaci di democratizzare il paese). Le missive a Venezia erano state appese al muro. Qualcosa da percepire in via quasi eretica.

Nel convincimento a prescindere, la vitalità si sottrae alla pienezza della profondità. La marionetta trascina il mero nascondimento della sua essenza. L’eretico vorrebbe liberarsi da qualche codice. Ma questo si giustifica proprio osando a demitizzarlo. In entrambi i casi, noi percepiremo l’ironia sulla grandezza sottratta alla propria magniloquenza. In via nichilistica, Cioran scrive che l’uomo dovrebbe vivere fondendo la rassegnazione con l’estasi, fra la freddezza dello stoicismo e l’invasamento della mistica. Un sospettante si pone verso il mero nascondimento di qualcosa. Sarà facile percepire il freddo invasamento del suo dubbio. Sospettando qualcosa, questa si ritirerà, dalla realtà verso la virtualità.

A Venezia, l’artista Vyacheslav Akhunov (nato in Kirghizistan) aveva riportato una vecchia installazione del 1976. Questa voleva ironizzare sulla falsa magnificenza della propaganda politica. Negli anni ’70 si conosceva il regime sovietico. Ingrandite in via quasi architettonica, le lettere dell’alfabeto cirillico si percepiranno nella propaganda di se stesse. Oggi Vyacheslav Akhunov vive in Uzbekistan, dove secondo lui la politica non potrà rischiare il ritorno alla banalità del regime. Così, egli sceglie di recuperare la vecchia installazione del 1976, attualizzandola. Nel convincimento a prescindere, assuefatti dalla propaganda, le persone vivranno passivamente, come le marionette. E’ la sottrazione dell’individualità, rispetto al codice cubitale della società. L’installazione lignea di Vyacheslav Akhunov evoca la freddezza dell’architettura sovietica. Forse, soltanto lo spiritualismo geometrico di Tatlin (col suo Monumento alla Terza Internazionale) avrebbe scosso il vissuto spartano (o rassegnato) della dialettica marxista, oltre l’apparato dell’ideologia. Nel contempo, l’installazione di di Vyacheslav Akhunov si percepisce come sottilmente invasata. Con il carattere cubitale, il codice della società guadagnerebbe in segretezza, toccando persino il Cielo. Pare che le lettere dell’artista abbiano uno sguardo oracolare. Simbolicamente, noi dovremmo almeno sospettare che la falsa magnificenza della propaganda ancora esista, in certi paesi del mondo. Così, l’oracolo di tali lettere si percepirà nella segretezza d’un monito, per le nuove generazioni.

L’ipnotizzato o l’insonne si nasconderà stoicamente all’invasamento della sua profondità. L’eretico sospetterà che la rassegnazione alla realtà (costruita sui pregiudizi socioculturali) più freddamente debba ritirarsi nella virtualità (negata dalle situazioni contingenti). Se qualcosa ci convince, o la critichiamo, allora essa invaserà la nostra inutilità, ironicamente. L’ideale, il numero, il tavolo, il desiderio ecc… sono comunque, e questo si percepirebbe sospettosamente, parendo che ciascuna differenza si ritiri da se stessa. L’insonne o l’eretico vive la freddezza dell’invasamento. Cioran ama il nichilismo dell’autoironia! La freddezza dell’invasamento si percepisce in chiave paradossale. Se la realtà nasconde (nega) in se stessa la propria virtualità, ciò si farebbe quantomeno ritirare (sottrarre), tramite il carico profondamente inutile sia della rassegnazione (nell’insonnia) sia della sospettosità (nell’eresia).

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Saodat Ismailova, Still from Zukhra, 2013, Double projection on bifacial screen, full HD
Courtesy Carlos Casas

Al Padiglione dell’Asia Centrale, era stata invitata pure l’artista Saodat Ismailova (nata in Uzbekistan). La sua videoinstallazione ha una ragione abbastanza personale. Da bambina, l’artista veniva svegliata dalla nonna, d’inverno, riconoscendo l’ultima stella in cielo: Venere. Si tramandava che là misteriosamente fosse ricomparsa una ragazza. Perse le fattezze umane, lei in seguito poteva solo risplendere. A Venezia, la videoinstallazione dell’artista ci mostra proprio una ragazza, coricata a letto. Il ricorso all’inquadratura fissa favorisce la nostra percezione d’una vitalità in letargo. Subito, il visitatore penserà che lei non s’alzi più, in tutta l’apertura giornaliera del padiglione. Esteticamente, noi percepiamo che il letargo permetta alla vita di ritirarsi nell’invasamento di se stessa. Chi sogna ha i pensieri rasentanti sull’intimità, interamente preso dalla sua coscienza. Nel letargo, più freddamente la vitalità tenderebbe a ritirarsi. Accettando il mito, la ragazza addormentata in terra si risveglierà solo fra lo splendore di Venere. Un pianeta bollente, e tuttavia dentro la freddezza dell’alba (né annullante per il buio, né differenziante al chiaro). L’ultima stella della notte si percepirà nella sua insonnia. A qualcuno parrà che la videoinstallazione dell’artista ci mostri una vitalità rassegnata. Ma il ritiro del letargo, almeno secondo il mito, porterà la ragazza a farsi invasare, tramite il freddo splendore di Venere.

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