Nei sogni di Rōsei
volano farfalle
di carta piegata.(Ihara Saikaku, 1680)
Alcune volte si ha bisogno di ri-scoprire (o imparare) che la poesia non sempre necessita di parole. Questo è il pensiero che mi ha visitata mentre mi inoltravo nelle cantine di Palazzo Barolo, a Torino, smarrendomi nelle eteree sculture di Origami – Spirito di Carta. Più di 300 origami (di artisti noti a livello nazionale e internazionale che aderiscono a CDO – Centro Diffusione Origami e a NOA – Nippon Origami Association; nonché una selezione di opere di studenti dei Licei artistici del capoluogo piemontese), duettano con pareti a mattoni, con una luce ombrosa, con sottili fili di nylon e indistinte bacheche di vetro. Sono figli di una comunione intima, di un dialogo serrato fra colui che piega, la carta e un deus ex machina che elargisce la grazia di poter dar vita a una figura. Così: se ogni immaginazione implica un credere è altresì vero che alla base dei principi che armonizzano l’origami vi sono i principi shintoisti del ciclo vitale e dell’accoglimento della morte come energia di trasformazione: ciò che viene creato, nella sua molteplicità e fragilità, è simbolo di una forma che viene ricreata al fine di rinascere, in un eterno ciclo vitale nel quale le mani paiono assumere solamente la stigmate d’un fertilizzante imperituro.
Il lemma origami deriva dal giapponese Oru (piegare) e da Kami (carta). Kami, con un ideogramma diverso ma con la stessa pronuncia, significa anche spirito, divinità: questa compenetrazione in terra di significato eleva dunque questa arte apparentemente povera (ma perché povero è il soggetto, la carta) alla sfera del divino, donando a questa tecnica una valenza mistica, sacrale. Del resto è essa stessa risposta alla metamorfosi di una res corporea (in origine questi sogni ripiegati si creavano esclusivamente con carta di riso, quindi con un prodotto della terra) in un qualcosa di diverso, altro, superiore.
Contro uno sfondo senza periferie, mai descritto ma solo suggerito, questo piccolo mondo ora sospeso, ora in bilico, ora flebilmente appoggiato dà modo di assaggiare il fueki ryūkō: “l’impermanenza e l’eternità” che costituiscono il viaggio perpetuo d’ogni arco vitale. Così come lo Haiku è un’arte poetica non di idee ma di res, allo stesso modo ogni origami narra quasi unicamente attraverso quei segni, quelle pieghe che paiono dominare una pausa del senso, una suggestione incerta, un equilibrio instabile atti a creare un vuoto nella percezione di chi guarda. Un vuoto, tuttavia, cristallizzato entro inusitate evanescenze cromatiche e dettagli di ombre, e per questo apportatore di infinite possibilità di corrispondenze, racconti, rivelazioni. L’esposizione che prevede tre aree tematiche (la rappresentazione del mondo, la rappresentazione della mente, i totem simbolici) va osservata in silenzio. Andrebbe osservata in silenzio. Ma a meno che non si abbia la possibilità di visitarla senza altri e soprattutto senza i bla-bla e le innumerevoli macchine fotografiche recentemente recapitate da Babbo Natale, non resta che isolarsi nell’ascolto di una phonè rivelata da forme oltre le forme visibili. In un silenzio della pienezza che apre a spazi in fieri, non ancora manifestamente dati.
Dopo splendidi cobra, plissettati cigni bianchi e neri, pavoni. Dopo guerrieri sospesi su esili rami di bambù, gioielli, origami modulari (incastrati fra di loro), piccoli – ma rigorosi – matematici, geometrici, neuronali motivi. Dopo gli undici scorpioni neri dell’opera Evoluzione Scorpioni, chiude il percorso espositivo la figura della gru (o tsuru); ad oggi uno degli origami tradizionali giapponesi più noti (la cui tecnica fu perfezionata attorno al XVIII secolo). Al di là del famoso testo Piegatura delle mille gru (1797) di Sembazuru Orikata (nel quale la gru è presa a simbolo della perpetuità e dove essa è insegna indiscussa nella leggenda in base alla quale chi riesce a piegare mille gru vedrà ogni suo desiderio accontentato), l’episodio più diffuso congiunto a questa mito concerne Sadako Sasaki: piccola esposta al raggio della bomba di Hiroshima che dal proprio giaciglio di morte iniziò a piegare le mille gru. Sadako morì prima di riuscire a portare a conclusione la propria opera, ma le venne eretta una statua nel Parco della Pace di Hiroshima, una fanciulla in piedi con le mani aperte ed una gru in volo dalle sue dita. Nell’atrio di Palazzo Barolo, sospesa nel niente e illuminata da sotto – quasi a sottolinearne le ipotetiche nervature e piume – si libra un’enorme gru bianca. Dispiega le sua ali scrutando dritto a sé nei meandri di un’interezza difficilmente afferrabile, se ne sta lì – in simbiosi con lo spazio che l’ha accolta – e non guarda l’astante. Ricorda un oracolo, tanto da incutere una specie di pudore reverenziale; lo stesso che si potrebbe avere dinnanzi ai templi o a improvvise manifestazioni deifiche.
Così come il kintsugi è l’arte di aggiustare le ferite, unendo con metalli pregiati i frammenti di un dolore – evidenziando quelle fratture che sono premessa di nuova bellezza – allo stesso modo ogni singolo pezzo di carta narra dell’arte di piegare metamorfosi, di un’immortale completezza che risulta, al fine, semplice. Minuta. Eppure l’arte dell’origami implica una maestria, una conoscenza tutt’altro che elementare e chiaramente da curare con un assiduo esercizio. Una forma di attenzione che è, tuttavia, pazienza tersa, piena e conscia del valore del tempo. In un piccolo oggetto – cagionevole e potente al contempo – sta dunque il segreto del tempo. Un tempo antico che chiede di essere assecondato unicamente da un respiro essenziale.
ORIGAMI. SPIRITO DI CARTA
Palazzo Barolo,
via delle Orfane 7, Torino
www.mostraorigami.it
info@mostraorigami.it
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