Nulla ritorna dal quel mondo. Tutto è qui
(Vladimír Holan)
Nero è uno specchio fattosi colore. Duella in suolo manicheo con il suo opposto – il bianco – e con esso segna il limite d’ogni possibile gamma cromatica. Tuttavia chi frequenta le sue lusinghe ben sa che non esiste un solo punto di nero, così come non esiste una sola black attitude, ma che esiste, invece, l’occasione data da questo colore che già da solo – a seconda dell’opacità o della brillantezza che assume – è in grado di diventare vessillifero indiscusso della somma, della negazione e sintesi d’una immaginale tavolozza di misura e oltremisura. Associato all’indifferenziato primordiale, a tutto ciò che concerne il territorio di Ade (ma ciò che sta sotto la realtà apparente altro non è che l’utero della terra in cui si opera la palingenesi del mondo diurno) è voluto signore – parafrasando Kandinskij – di “un nulla morto dopo la morte del sole”; della caduta senza ritorno nel Nulla. Del resto chi profuma di nero assume un po’ le malagevoli stigmate di quell’Adamo e di quell’Eva mazdei i quali, una volta cacciati dal paradiso, verranno vidimati e ammantati di nero. Ma poco importa se la condanna rappresenti ai più la vedovanza d’una pietra tombale, perché qui di altro si discetta. E così preferiamo rubare ad Orfeo l’immagine di una dea madre che dal nero della notte origina corpi nuovi, preferiamo il nero psicopompo etrusco Camillo e ogni fenomenologia della verginità primordiale: benandante d’una non meglio precisata promessa di tabarri ombrosi sotto i quali nascondere inusitate ali corvine. E così ogni artista presente a NERO, esposizione curata da Emanuele Beluffi per conto della Galleria Bianca Maria Rizzi e Matthias Ritter di Milano, porta il suo intimo inchiostro: fatalmente decodificato sulle pareti d’uno scalcinato spazio bianco.
Maestra di cerimonia – se non altro per la sua valenza mitopoietica – in grado di condurre l’astante alla liminalità del rito è La Luna di Sergio Padovani. Una presenza steatopigie che, occultando-si nello spazio-tempo d’un inesauribile cono d’ombra, sprezzante della propria nudità, conficca di sbieco le sue pupille in quelle di chi guarda attraverso una coreografia mutaforme dedita al pallore più sublime, rinnovando l’ossessione per il culto madre-nutrimento nell’inespicabile allucinazione d’una novella rinascita. Le fanno eco le fotografie di Nicol Vizioli le quali, strizzando l’occhio all’immaginario medioevale dei Bestiari, quasi paiono stilare un compendio di possibili campioni post-umani. Un connubio – quello fra uomo e bestia – che ancora una volta parla la lingua d’una Babilonia abitata da un anima(le) totemico simbolo d’un auspicabile antropomorfismo deifico. In tal modo conosce lo stesso idioma anche il corpo presentato da Giacomo Vanetti. Un corpo caravaggesco che esce dal nero per bere la luce; un corpo inorganico, privo di un contorno risolto tuttavia in grado di offrire – come una madonna rinascimentale – il suo seno in sacrificio. Così come sacrificio sono le danze (velatamente preraffaellite) delle fotografie di Francesca Manetta che incede – mediante un serrato dialogo con uno spazio ora bucolico, ora in rovina – fra i lembi dell’insistente scrittura d’una fiaba in cui poter essere sposa e principessa di se stessa.
A ben vedere anche questa selva oscura ha le sue fiere. Mirabilmente condotte da un invisibile guinzaglio da Maurizio L’Altrella e da Alice Zanin. Un olio su tela – quello di L’Altrella – campeggiato da un felino la cui pelliccia detiene il monopolio dell’oscurità su cui regna; una scultura aerea, resa con materiali poveri, quella della Zanin, che ancora una volta sottolinea la formula ctonia di un volatile condannato, per peccato di vanità, al castigo di un piumaggio nero, sempre più sintomo di quella profezia per la quale non esiste ricetta. E c’è, in NERO, questa profezia. Introdotta dal teschio della bestia di Monika Grycko e confermata dai Sigilli di Nicolai Lilin, il quale affida al disegno la creazione di un ipotetico suggello riesumato da una primigenia danse macabre. Coreutica non dissimile da quella proposta da Emila Sirakova. Un dittico selvatico dalla cui serratura è possibile spiare il gioco instancabile che si crea alla periferia fra Io, Es e Super Io nell'(in)certezza che ogni nervo e muscolo teso siano una perpetua tauromachia atta a aspergere stille di meta-fisiche visioni sul crinale fra ciò che di apollineo e dionisiaco rimane in questo tempo.
Ci sono dunque corpi, in NERO. Corpi intuiti, corpi concessi e corpi nel loro far-si. Ci sono corpi dichiarati e corpi celati da strutture impervie (Mihailo Beli Karanovic) o dissimulati in nugoli siderali (Aqua Aura) o paralizzati nel vortice di Fabio Giampietro ma sempre corpi, anche quando sono una macchia policroma in movimento (alla maniera di Giancarlo Bozzani) o volti liquefatti nella loro stessa membrana, come nel lavoro baconiano di Lorenzo Puglisi; come nello s-fregio di Greta Bisandola. E ci sono corpi in metamorfosi. Nell’avvenire imprevedibile che si forma. Così, le sculture in travertino e ferro di Christian Zucconi raccontano del respiro contratto e spezzato della crisalide. Raccontano di un corpo squarciato, appeso con ganci da beccheria, dischiuso nell’autopsia di linee di carne e sangue. Raccontano del dolore che promana dall’inevitabile trasform-azione. A questo tormento replicano i video di Eleonora Manca nei quali fa irruzione una forza straniera in grado di disordinare la respirazione del corpo, nei quali compare in tralice il mito di Psyché: farfalla-anima scarcerata dal mero involucro carnale una volta fuggita dalla bocca dell’uomo in agonia.
Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter
via Cadolini, 27
20137 Milano
M 347 3100 295
www.galleriabiancamariarizzi.com
info@galleriabiancamariarizzi.com
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