Napule è…’na mostra al MADRE
A Napoli l’emergenza è di casa. Stato naturale delle cose, condizione che contribuisce in fondo a fortificare l’aura magica e mitopoietica di una città che vive di riti ed eroi. Teneramente e tenacemente abbracciata al proprio passato. Strenuamente e ferocemente in lotta per il proprio futuro. Delle mille e più situazioni di crisi azzannate alla gola, combattute con il vigore di chi usa il fazzoletto per asciugarsi il sudore dalla fronte – più che le lacrime dal bordo degli occhi – è stupefacente quella che ha visto in pochi mesi risorgere il Museo MADRE. Un miracolo in carne ed ossa, non liquefatto in un’ampolla. Un successo che ha il suo Signor Wolf – ovviamente Andrea Viliani – ma che vive, forse più che nella nuova straordinaria programmazione di mostre temporanee, in quel distillato di buone pratiche che risponde al nome di Per_formare una collezione. Può essere semplice, dopo un terremoto, sgombrare le macerie e rialzare muri e ponti; operazione più complessa quella di rattoppare i legami interrotti, le connessioni saltate, i rapporti incrinati. Segnale brutto, anzi pessimo, quello degli artisti che ritirano le opere concesse in comodato all’ente diretto da Eduardo Cicelyn: messaggio di scoramento e svalutazione apparentemente irrecuperabile. Ferita da sanare assolutamente. Perché se di museo di tratta, e non di kunsthalle, è sulla collezione che si deve reggere l’intero castello. Da solidificare a colpi di cazzuola, per non correre il rischio di restare sulla carta – restare di carta – e crollare al primo spiffero. È stupefacente, oggi, camminare per le sale del MADRE. È corroborante scoprire i nuovi arrivi del programma di acquisizioni elaborato da Alessandro Rabottini ed Eugenio Viola, esposti dal 21 dicembre ad libitum. Raffinato il presupposto concettuale che guida l’intera operazione, spalmata su step accuratamente calendarizzati e studiati come anelli indipendenti di un’unica catena. Piccole mostre che possono anche camminare da sole, ma che dialogano tra loro fedeli all’adagio che vuole il tutto maggiore della somma delle sue parti. Si torna, in questa seconda tranche, ad approfondire il tema del linguaggio introdotto con l’avvio dei lavori. Grazie ad opere di cristallina capacità evocativa: passando dalle cancellature di Emilio Isgrò (non “le solite”, ma le prime) agli alfabeti runici di Maria Lai, eleganti cuciture che sfidano e vincono il tempo. Esaurita l’indagine sul modo di comunicare si passa all’oggetto stesso della comunicazione. È un’arte che prende posizione, che si sporca le mani, che si immerge senza paura nel proprio tempo, nello spazio degli uomini e delle donne reali. Lo fa nell’ossimoro di Piero Gilardi, che decide di non essere più artista ma lo è ancora di più quando – nella Torino degli Anni Settanta – trasforma i cortei dei metalmeccanici in performance degne del Living Theatre; e lo fa, il riferimento al collettivo ideato da Judith Malina non è casuale, nelle straordinarie pitture espressioniste di Julian Beck. Lo ripete con l’elegante e silenziosa rivoluzione di Jeremy Deller, che nel suo I love melancholy appoggia uno stremato performer solitario alla parete nera; e lo ricorda nella straordinaria collezione di video di Gianfranco Baruchello, crudi e truculenti nell’usare gli stilemi della pubblicità (e siamo nel ’68!) per affrontare violente rivendicazioni di carattere sociale.
Napoli è la città di Marcello e Lia Rumma, di Peppe Morra e Lucio Amelio: è luogo dove l’arte non si contempla, non si compra, non si consuma. Si fa. Punto. Imprescindibile allora un ricordo non stucchevole, ma fecondo, di ciò che è stato: con il Giardino all’italiana presentato a suo tempo ad Amalfi da Gino Marotta, in quella che fu la prima grande vetrina concessa all’Arte Povera; e con gli incredibili termoformati di Gianni Pisani. Che giocava con i polimeri e la vetroresina quando ancora Jeff Koons portava i pantaloni corti.
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