Sabato 7 Marzo 2015 dalle ore 10.30 alla GAM di Torino in via Magenta 31
performance Sguardi Corporei
di Mona Lisa Tina
testo di presentazione a cura di Martina Corgnati
Sabato 7 Marzo la GAM propone un appuntamento straordinario a conclusione del ciclo di incontri tenuti in museo dal Dott. Giovanni Castaldi psicoterapeuta e Professore di Metodi e Tecniche dell’Arte Terapia presso l’Accademia Albertina di Torino, insieme a Mona Lisa Tina – artista performer e arte terapeuta. Il progetto sperimentale aperto al pubblico adulto e a persone con disabilità e dedicato al tema dell’identità, è stato accolto con molto entusiasmo dai partecipanti.
Alle 10.30 appuntamento in GAM Education Area con Sguardi corporei, performance di Mona Lisa Tina. Si tratta di un progetto site-specific pensato per gli spazi museali della GAM che si interroga sulla fiducia che le persone investono negli altri.
Ai partecipanti verrà chiesto di chiudere gli occhi e di affidarsi totalmente all’artista in un percorso di scoperta lungo la collezione permanente del museo. Verranno stimolati tutti i sensi ad esclusione della vista, che abitualmente ci fa da pilota nel vivere quotidiano.
Solo al termine del percorso i partecipanti potranno vedere in faccia la propria guida.
Il messaggio è chiaro: non è possibile avere un incontro autentico e significativo con l’Altro se prima non abbiamo maturato una consapevolezza profonda in noi stessi che, in ogni caso, è un processo evolutivo costantemente in progress.
Per info e prenotazioni entro giovedì 5 marzo:
Dipartimento Educazione GAM
Tel. 011-4429547
e-mail giorgia.rochas@fondazionetorinomusei
Performance art = termine utilizzato specialmente negli anni sessanta per indicare le esperienze artistiche basate non sull’oggetto-opera ma sull’azione effettuata direttamente dall’artista o da altri soggetti (performers) da lui scelti. Performance art caratterizza quindi l’evento creativo in se stesso, spesso connotato da valenze multimediali.
Questa la definizione di performance che proponevamo insieme a Francesco Poli nel 2001 nel nostro Dizionario dell’arte del Novecento. Definizione che adesso, a neppure quindici anni di distanza, appare forse non superata ma radicalmente insufficiente. La performance, infatti, da strumento in qualche modo specialistico e limitato fra le pratiche dell’arte contemporanea, è diventato un passepartout sempre più diffuso, da solo o insieme alla fotografia, al video e ad altre forme di “raccolta delle tracce” dell’intervento estetico ma soprattutto esperienziale in cui tendono a confluire problematiche varie, dalle implicazioni e spesso più sociali che artistiche: dalla sessualità al disagio collettivo e individuale. Conclusa l’epopea dei grandi pionieri come Marina Abramovic o Vito Acconci, la performance oggi tende piuttosto a ripiegarsi su se stessa fino a farsi specchio dei suoi stessi interpreti e delle loro sfaccettature esistenziali e identitarie. Essa è un modo, è anche un modo, di significarsi, di manifestarsi per ciò che si è o si immagina di essere. L’estetica poi, l’opera, arriva in un secondo momento, se arriva del tutto.
In questo panorama, si distingue il lavoro di Mona Lisa Tina per consapevolezza e fedeltà a se stesso, nella sua doppia e dichiarata natura di intervento estetico e pratica terapeutica. La giovane artista, infatti, propone da sempre il suo corpo come esempio, a disposizione dell’altro e completamente investito nella pratica relazionale. L’azione, il gesto, il movimento si configurano quindi come proposte, come atti parziali che spetta ad altri completare e risolvere, o comunque investire di senso. La sua è una “opera aperta” nel senso chiarito ormai mezzo secolo fa da Umberto Eco ma anche da Roland Barthes, in relazione alla morte dell’autorialità. Chi è autore, infatti, delle performances di Mona Lisa Tina ? l’artista configura un campo, ipotizza una sequenza che può avere, come nel caso del lavoro condotto alla GAM di Torino, un forte valore simbolico ma non conclude, non previene, non prevede, non organizza e, in fondo, non sa. Il narcisismo del performer ha già subito un duro colpo. Protagonista non è più l’individuo, l’artista, ma l’interazione sensibile, la condivisione, l’empatia. “ Ho definito questa modalità espressiva come “Performance Terapia” e la considero un’ulteriore tecnica di arte terapia che stimola il processo creativo dell’individuo ad esprimere soprattutto attraverso il linguaggio del corpo, sentimenti delicati e vissuti difficili da spiegare con le parole ma che nella performance artistica riescono ad emergere con più facilità e immediatezza”, spiega Mona Lisa.
Il museo, dunque, in questo caso, diventa teatro di una serie di passaggi di cui sono stati definiti solo i contorni generali: le persone sono invitate ad affidarsi alla cura dell’artista che le accompagna attraverso una serie di esperienze sensoriali ed affettive da attraversare dopo essere stati bendati, quindi privati del meccanismo di controllo del proprio ambiente più profondo e affidabile: la vista. La vista articola e organizza le nostre esperienze, ordina i nostri valori, amministra le nostre distanze o le nostre contiguità. Un mondo temporaneamente buio è un mondo in cui gerarchie e distanze sociali, freni inibitori, strumenti di controllo, paure e forme di dominio, tutto subisce una ridiscussione e un riordinamento. Ed è in questa dimensione flebile e promettente che Mona Lisa Tina vuole guidare il suo complice, colui (colei) che ha deciso di farsi accompagnare nel quarto d’ora di azione che gli/le è stato proposto. Bendati, i partecipanti vengono così condotti a annusare, toccare ed essere (gentilmente) toccati, sentire, provare; vengono abbracciati e seguiti in un percorso vagamente regressivo ma molto intenso alla scoperta di sensazioni dimenticate e di un altro invisibile che si configura, per parafrasare ancora la parole dell’artista, come “preziosa opportunità di crescita”.
Osservata con distacco e in termini molto generali, l’azione di Mona Lisa Tina si presenta così quasi come l‘opposto ideale – ma reso più dolce – di Rhythm 0, condotto da Marina Abramovic quarant’anni fa, nel 1974 allo Studio Morra di Napoli.
Allora era il corpo dell’artista, anche in quel caso una giovane donna, a mettersi nelle mani di un altro collettivo chiamato ad agire su di lei e a fare, in questo, esperienza di sé (una brutta esperienza). L’artista era passiva ma era al centro, corpo sacrificale del martire, del capro espiatorio, della vittima designata.
Oggi il corpo dell’artista prende fra le sue mani un altro collettivo che sperimenta la passività come strumento di conoscenza e di esperienza (una bella esperienza). L’artista è attiva ma ha rinunziato al centro, al narcisismo; il suo è un corpo al servizio, è saggio e guida.
Alla strategia dell’eroe, necessaria forse in quel momento in cui era ancora lunga la strada del femminismo e della militanza sociale e personale, è subentrata la strategia dello sherpa, che con pazienza e umiltà ataviche, senza dichiarare ma facendo, raggiunge le vette più alte.
Martina Corgnati
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