MIA PHOTO FAIR 2016 – the day after

1 Posted by - May 4, 2016 - Kritika segnala, Recensioni

ART FOR DUMMIES

Come saperne poco e pretendere di non saperne affatto
Senza alcuna pretesa, o nomea che mi introduca, i miei due cent sul MIA 2016

Anche la fotografia ha il suo Expo. Già, MIA Photo Fair 2016 ha portato nel cuore della palpitante e pedalante Milano oltre 230 artisti della messa in posa da 13 nazioni, ad esporre in oltre 100 stand le loro arbitrarie considerazioni di opera d’arte fotografica. Ben più breve dei sei mesi dedicati alla versione culinaria più nota, MIA nei suoi quattro giorni di vita ha mosso un considerevole quantitativo di curiosi, appassionati e professionisti del settore, a varcare le soglie del The Mall di piazza Bo Bardi, tanto da avere problemi di mobilità (e conseguente nervosismo da coda di umani perduti o indecisi) al suo interno.

Poco male, più tempo agli artisti e alle loro opere. Che, come però il mio buon mentore mi ha insegnato, il grido di battaglia mentre si attraversano queste anguste trincee di stampe ai sali d’argento e reflex digitali è sempre una: “screma”. Screma dal già visto, dall’impersonale, dal vago, dal povero in creatività e ancor più povero in presentazione. Solo dopo aver fatto mio questo concetto ed aver indossato i suoi occhiali (a finte lenti polarizzate) ho potuto comprendere, capire, analizzare e quindi, adottare un mio senso critico. Molière ci ricorda di farci un lungo esame di coscienza prima di pensare a criticare gli altri, ma io con me parlo già abbastanza, mi hanno dato carta e penna, e stasera non ho impegni.

Tolto il grasso dal latte (e devo dire, ben poco è stato da eliminare), nel mio secchio rimangono sei gocce che osservo con particolare interesse.

Parto dal concittadino Me-nè che, con i suoi Equilibri, manda a quel paese il mio occhio oggettivo e lascia spazio ad un sospiro smorzato che balbetta: “li voglio tutti, nel mio soggiorno, ora”. Multimedialità, un tratto primitivo, sfocato, di oblunghe figure umanoidi contorte dentro il loro mondo, ma apparentemente comode nella loro tetra dimensione, un ensemble di dettagli e spunti che farebbero gola persino a Maynard J. Keenan e Adam Jones, per la realizzazione di un nuovo capitolo dei Tool.

L’occhio cade anche su Nico Mingozzi con i suoi Unbelievable Monsters, presentato dalla Galleria De Chirico: un’intera parete di ritratti fotografici dell’inizio del secolo scorso, aggressivamente alterate con graffette, scotch, pezzi di carta, volti decomposti e ricomposti, soggetti amputati, privati della vista o decapitati. Facile percepirne la reinterpretazione dei canoni estetici, più difficile coglierne il dotto omaggio a Palahniuk e al suo Invisible Monsters.

Provenendo da un ambiente “digitalmente astratto” e sentendo spesso la mancanza di connessioni tra il-mondo-la-fuori e lo-schermo-del-mio-portatile, non posso che apprezzare il lavoro di Alessandro Risuleo con le sue Contaminazioni del Corpo. Cinque corpi, cinque scatti, cinque colori, un’idea decisamente contemporanea ed innovativa. Ruvide pennellate monocromatiche su corpi umani vengono esaltate da un forte contrasto con il nero che le circonda, i contorni si perdono nell’oscurità, lasciando alla percezione ciò che la Gestalt ci insegna da tempo. Già basterebbe di per sé, ma l’artista ci spinge a un’innovativa interazione con le sue creature. Tramite la sua app smartphone ArtScan, i corpi fotografati prendono letteralmente vita, riscrivendo il concetto di fotografia. Un’esperienza godibile non solo alle sue esposizioni, ma anche con qualsiasi supporto riproduca i suoi scatti (cartoline, libri, riviste, foto online).

Rompo il filone “dark” per dare spazio al maestro Mario Dondero, il quale -per mia dilagante ignoranza- non conoscevo ma mi riprometto di approfondire. Una fotografia in bianco e nero, soggetti di vita quotidiana, la malinconica grana degli ingrandimenti in camera oscura, ricordano la fotografia dei giganti del cinema italiano, come Risi e Fellini. Oppure, più semplicemente, gli scatti di Daniel Kramer per il grande Highway 61 Revisited, per il folkoristico mister Tamburino.

Tornando a tonalità e tematiche a me più avvezze, mi soffermo per lungo tempo davanti ai lavori del nipponico Katsu Ishida, mentre il mio mentore se lo rapisce per una conversazione personale. Anche qui il nero, lo scuro e il tetro predominano sui chiari, in opere che non si limitano alla rappresentazione, ma prendono vita dalla ricerca e dallo studio dei supporti, dall’unione di diversi media e sicuramente da un pizzico di follia. Ishida ha sicuramente un segno inconfondibile, che sia la tecnica o i suoi soggetti non saprei dire ma qui, come per Me-né, vedi un’opera e sai già chi è l’artista. In quest’era in cui facciamo a gara per chi ha più megapixel sul proprio smartphone, trovo sia un’elemento importante – e non facile da trovare –   per definire un’artista tale.

Chiudo con il primo artista che mi ha affascinato di questa mostra, il russo Andrey Kezzyn che, con una fotografia e dei soggetti degni del nome di Lachapelle, presenta degli estrapolati di vita comune in madre Russia, rivisti in chiave assurdo/ironica: pezzi come About Stacie, Interview with Thooth Fairies o il quartetto di The Four, lasciano presupporre una miriade di ore di lavoro in pre e post produzione. E invece, niente Photoshop.

Garrulo e festante, arrivo stremato alla fine (il contapassi mi avverte che avrei potuto comodamente farmi Loreto-Duomo tre volte nella stessa giornata) e, tirando le somme con il mio mentore, alla domanda “che cosa ti sei portato via dalla giornata di oggi?”, rispondo: qualche cartolina, la speranza di poter acquistare almeno una delle opere che ho visto in un futuro molto prossimo, e due bicchieri di rosé a 15 euro.

Dimenticavo, la certezza di ritornare anche gli anni a venire, con l’augurio di vedere sempre più coetanei di successo dall’altra parte degli stand.

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