Se è esistito, nel corso della storia dell’arte, un uso sfrontato, intenso e anticonvenzionale del buio e della luce – per contrasti nettissimi, tragici e violenti -, questo si è verificato sul finire del Cinquecento e durante la prima metà del Seicento.
Tra le teorie eliocentriche galileiane e la scoperta di un’orbita ellittica da parte di Keplero e tra la nascita di una pittura devozionale post tridentina e le vastità ultraterrene suggerite dagli sfondamenti architettonici su volte affrescate, ha preso piede un uso teatrale della luce: il tenebrismo caravaggesco, quel buio nero come la pece in cui veniva riassunta l’intera ambientazione dell’opera, ma che veniva improvvisamente tagliato da una luce radente, decisa come una predatrice a scovare i soggetti per acciuffarli, strappandoli all’oscurità come se le appartenessero.
È stato questo lo straordinario contributo che Caravaggio ha dato alla pittura del suo tempo, insieme al crudo realismo dei suoi personaggi. Ed è stato questo che, a pochi anni dalla sua morte, ha contaminato il linguaggio pittorico di artisti italiani e stranieri.
Il caravaggismo – tendenza autonoma e mai scuola propriamente fondata dal Caravaggio (che oltretutto aborriva l’idea di avere discepoli apprendisti che ne emulassero lo stile) – si è diffuso in Spagna, Francia e Italia. E in patria è stato altisonante per lo più in territorio romano, emiliano e partenopeo. Napoli, in particolar modo, fu contaminata dalla presenza stessa dell’artista negli ultimi anni della sua vita, tra il 1606 e il 1610. E la sua presenza fu determinante per la nascita di una vera e propria corrente in quella che allora era la capitale del vicereame spagnolo. Artisti partenopei ma anche spagnoli presero ad adottare la poetica pittorica del Tenebroso. Tra i primi il Battistello, poi Mattia Preti, Salvator Rosa, Bernardo Cavallino. E dalla Spagna altri talenti giunsero in quel di Napoli, adottando il medesimo luminismo. Primo fra tutto Jusepe de Ribera, detto Lo Spagnoletto, attivo a Napoli a partire dal 1616. Inoltre, tra i tanti che scrissero di questo caso di luminismo estremo, Rudolf Wittkower, storico e saggista tedesco, ne diede una delle descrizioni più pertinenti. Egli, infatti, affermò che quella caravaggesca era una luce capace di isolare le figure come fossero solidi geometrici o forme impenetrabili, conferendo loro maggior compattezza e dunque una più tenace presenza all’interno dell’opera stessa.
Questo è quanto accade oggi nelle opere di Maurizio Carriero, la cui ultima produzione pittorica è stata presentata al pubblico in occasione della mostra personale presso la Galleria Rubin di Milano.
Trascorso qualche secolo dalla scoperta della luce caravaggesca, ciò che può spiazzare il fruitore d’arte contemporanea oggi è senza dubbio la possibilità di vedere riattualizzato quello stesso linguaggio pittorico. Capacità prodigiosa di cui è dotato Carriero, pittore di origine casertana e di formazione accademica (prima il triennio svolto presso l’Accademia di belle arti di Napoli, poi il biennio specialistico a Milano presso l’Accademia di Brera), ma avente al suo attivo anche un corso di studi di arti visive presso la Bauhaus Universität di Weimar, Germania.
Maurizio Carriero dipinge rigorosamente a olio ed è in grado di riprodurre le opere dei maestri sopracitati con perizia e virtuosismo tali da permettergli di ricostruirne la pennellata, gli effetti cromatici e certe rapide lumeggiature date in punta di pennello con grumi di bianco in zone di massima luce. In definitiva, questo artista lavora come un maestro di bottega. Analizza l’opera scelta dal punto di vista formale, ne studia ogni passaggio: dalla costruzione del telaio alla tiratura della tela, dall’imprimitura di colla e gesso fino alla stesura della pasta cromatica e delle vernici. Ogni opera che decide di prendere in prestito dalla storia dell’arte è prima oggetto di uno studio approfondito, perché solo partendo da una fedelissima riproduzione si può poi pensare di operare una variazione su tema e stravolgere l’opera per parlare un linguaggio che sia dei giorni nostri.
Così può capitare che, entrando nello spazio espositivo della galleria Rubin, si possa in un primo istante avvertire la sensazione di addentrarsi nella sala di un museo con opere di pittori seicenteschi. Ma l’effetto ingannevole viene immediatamente tradito dall’incontro con la prima opera in mostra, L’impronta della Luna. Dal buio assoluto, appena rotto da una luna rossastra in lontananza, emerge una figura femminile dall’incarnato lattescente e vestita da un tessuto di colore verdastro e cupo. Ha il capo reclinato all’indietro e un viso scevro d’occhi. E’ una donna senza sguardo. Come se qualcuno lo avesse cancellato, lasciando la superficie del viso nivea ed intatta. Tutto il resto è riconoscibile. Eppure lo sguardo manca, e questa assenza genera inquietudine e disorientamento nello spettatore che inizialmente avesse avvertito un senso di familiarità di fronte all’opera, soprattutto se nutrito di storia dell’arte. Ma la perdita di riferimento di fronte a quella mancanza è inevitabile.
In fondo alla sala, sulla parete immediatamente ovest, un’opera dalle medesime tonalità catturerà la vostra attenzione. Si intitola Maschera di Santità ed è la rivisitazione dell’opera di un caravaggista partenopeo: Bernardo Cavallino. L’opera in questione è il ritratto di Santa Cristina da Bolsena. La rivisitazione di Carriero è spiazzante: dalla consueta e tenebrosa oscurità emerge un viso roseo, reclinato e ritratto a tre quarti. È Santa Cristina che osserva lo spettatore con sguardo deciso. Ma alla riproduzione quasi fedele del Cavallino si aggiunge una citazione dechirichiana, che appare evidente nello scollamento del volto da una base anonima e ovale, memore dei manichini dipinti da De Chirico. Come a voler dire che il volto umano maschera il divino insito in ciascuno di noi.
La fede esplosa è invece un olio su tela montato su tavola, di formato ovale, esposto sulla parete sud, dove appare dipinta la figura di una Immacolata Concezione. Il punto di partenza è questa volta una statua presente in Piazza del Gesù a Napoli, la Guglia dell’Immacolata, eretta proprio dai Gesuiti nel Settecento. L’iconografia tradizionale vuole che l’Immacolata venga raffigurata sempre in piedi sul globo terrestre e la mezzaluna, nell’atto in cui calpesta il serpente, emblema del peccato originale. Nell’opera di Carriero invece i piedi nudi che spuntano dal panneggio schiacciano non il serpente ma le teste di due puttini, dipinte con poche, sommarie pennellate brune e tocchi di lumeggiature improvvise che ne rilevano i volumi delle fronti e delle gote. L’elemento che chiarisce il titolo di questo dipinto è però il volto della Madonna, che non esiste. È esploso. Ma si tratta di un’esplosione che in verità vuol essere estrema esaltazione della religiosità, intesa come sentimento deflagrante. L’atmosfera che ne deriva è quasi apocalittica, lo sfondo infatti non è esattamente tenebroso, ma riproduce un cielo costruito con dinamiche pennellate nate dalla mescolanza di bianchi, ocra e terre, e una linea dell’orizzonte inclinata, come se il globo si stesse sfaldando o come se il mare stesso volesse capovolgersi. Il suo colore è di un azzurro timbrico che spezza e contrasta la tavolozza di ocra e bruni su cui si impronta l’opera. Lo stesso azzurro diventa, per gradazione cromatica più scura, un blu intenso che si ripropone nel manto della vergine e per velature anche nella nuvola della sua testa. La testa esplosa della Vergine Immacolata crea una nube a forma di fungo che suggerisce il ricordo dell’esplosione atomica di Hiroshima.
Entrando poi nella seconda sala ci si trova immediatamente di fronte a una tela di medio formato su cui appare una figura di profeta dalla tunica rossa e dal volto anonimo, privo cioè di connotati e accennato solo nell’ovale bruno e nella sagoma che ne suggerisce la lunga chioma. La figura non è collocata centralmente, ma è più spostata verso destra nello spazio compositivo della tela. Cammina sulle acque di un mare agitato e dipinto in tonalità blu di Prussia. Quest’uomo non è ancora un mistico, ma piuttosto un viandante. Il taglio prospettico è angolare, le onde si modulano e schiumano su diagonali che sono i raggi visivi di una scatola prospettica il cui punto di fuga è posto fuori dal quadro. Il cielo è bruno, l’atmosfera è cupa. E l’opera è quella che porta il titolo dell’intera mostra: Cammino di Perfezione.
In mostra si possono ammirare anche lodevoli opere su carta, realizzate con creta nera e carboncino, come Il trionfo dei Palpiti o Assunzione Nucleare. In quest’ultima torna il riferimento all’esplosione della bomba atomica, nella deflagrazione della testa di Maria. Questa volta l’opera rivisitata non rientra più nel caravaggismo partenopeo, quanto invece in quello emiliano. Ci riferiamo qui all’Assunzione della Vergine, uno straordinario affresco di Giovanni Lanfranco realizzato sulla volta a calotta della cupola di Sant’Andrea della Valle nel 1627 e a sua volta contaminato da quella grande innovazione fatta di dinamismo, concentricità e sfondamento architettonico, portata da Correggio nel Duomo di Parma con un omonimo affresco esattamente un secolo prima.
Infine, sulla parete ovest della seconda sala, una tela di piccolo formato tradisce la poetica del Tenebroso per avvalersi di un cromatismo molto più vivace e luminoso, fatto di rosa, rossi e incarnati che ripropongono la sensuale opulenza tipica delle donne dipinte da Rubens.
Cammino di Perfezione è un titolo importante, impegnativo, ma pertinente. È tratto dall’omonimo libretto scritto nel Cinquecento da Santa Teresa d’Avila, dal quale l’artista recupera un concetto essenziale, divenuto chiave di lettura dell’intera esposizione: il percorso della vita inteso come graduale abbandono delle umane debolezze, al fine di ricongiungersi col Divino che dimora in ciascuno di noi.
Maurizio Carriero è un pittore colto e indagatore, che sviscera le opere del passato per poterle rielaborare in chiave contemporanea, veicolando sentimenti di rottura e spaesamento, tipicamente figli del nostro tempo.
Maurizio Carriero | Cammino di perfezione
Galleria Rubin
via Bonvesin de la Riva 5, Milano
info@galleriarubin.com
www.galleriarubin.com
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