MARTINA ANTONIONI | DORMO POCO SOGNO TANTO ### FRAC

0 Posted by - October 3, 2016 - Kritika segnala

Sfogliare le pagine di FRAC significa rievocare l’odore “antico” di quelle riviste e di quei cataloghi in cui i galleristi difendevano il senso delle loro scelte artistiche, consegnando così alla cara vecchia carta le riflessioni di chi non solo nell’arte investiva, ma anche faceva attività culturale. Questo, eoni fa. Oggi, invece, la spiegazione della mostra viene più spesso demandata alla retorica dell’ufficio stampa a mezzo web (lunga vita agli uffici stampa) e, quando va bene, al pieghevole destinato alla stessa visibilità della ricevuta dimenticata al casello dell’autostrada.

Inventarsi una rivista, fare un nuovo quotidiano, aprire una casa editrice o peggio una libreria non saranno scelte suicide quanto aprire una galleria d’arte in Italia, ma rappresentano  sicuramente opzioni in controtendenza, tanto per dirla con un eufemismo. Sì, gli editori si comprano quotidiani e altre case editrici, ma qui non stiamo parlando di consigli d’amministrazione dai quarti di nobiltà ai quali baciare la pantofola, bensì di galleristi più o meno folli che, non contenti di investire sui giovani artisti, di difenderli sul mercato dell’arte contemporanea in Italia e di fargli i cataloghi, decidono di dar vita a una rivista: la loro rivista, la rivista della galleria e degli artisti rappresentati.

Sottoinsieme dell’insieme: non sto parlando di tutti i galleristi (lunga vita ai galleristi). Massimo De Carlo e Massimo Minini ed Emilio Mazzoli non hanno bisogno d’elogi: sono potenti non perché sian bravi, ma perché portano in Italia artisti potenti. Qui mi riferisco invece a quei galleristi che hanno il coraggio di fare le mostre ad artisti di prima mano collocandone sul mercato la produzione a prezzi di…mercato. Non è facile difendere un giovane artista.

Siamo nani sulle spalle dei giganti e quindi abbiamo la vista lunga: ecco perché la scelta di Federico Rui di dare alle stampe il primo numero di FRAC ci sembra così incredibilmente inattuale.

FRAC è nello stesso tempo l’acronimo di Federico Rui Arte Contemporanea e l’immagine per cui la parola sta: gagliardo, no?, essendo una pubblicazione d’arte destinata al mainstream (“Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”, il Perozzi dixit).

Realizzata in occasione della personale di Martina Antonioni, qui alla sua seconda esperienza espositiva (il battesimo del fuoco alla galleria Bellinzona, e chi scrive ci mise lo zampino), FRAC è nello stesso tempo rivista e catalogo, numero monografico e pubblicazione della galleria.

Edizione limitata, formato 23×15 centimetri, pagine non numerate e intestazione con un font che fa molto anni Trenta, FRAC è ardimentosa come il primo numero di un nuovo quotidiano, con un testo di Martina Antonioni,  l’editoriale del gallerista e a seguire le immagini delle opere che vedrete in mostra: quattro anni dopo la prima personale da Bellinzona, Martina Antonioni, la capolista di FRAC, presenta in questa occasione una produzione inedita fatta di superfici “povere” (cartone e/o tela grezza), segno scabro, pochissimi colori, accenti rossi sul candore del bianco e composizioni fatte di sogno (il titolo della mostra è infatti “Dormo poco, sogno tanto”, tributo a un Maestro che in pittura elesse il sogno a cifra stilistica).

Già me l’immagino il critico bru bru che alza il sopracciglio perplesso: e allora?, niente testi critici in questa rivista? No, niente testi critici, perché, come scrisse Federico Rui in un catalogo di sei anni fa, “Non sono un critico, ma un gallerista. Eppure, proprio per questo motivo, credo di dover essere il primo a motivare le mie scelte espositive”. Tiè.

Chissà poi se un giorno leggerò anche questa frase: “Non sono un critico, ma un artista. Eppure, proprio per questo motivo, credo di dover essere il primo a motivare le mie scelte artistiche”, magari in esergo a una rivista di artisti che non si genuflettono cappello in mano al critico di turno.

Nel frattempo, lunga vita ai galleristi folli e ai loro più folli artisti. E agli uffici stampa, of course.

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