in copertina: Stefano Abbiati, Theonath001, 20x30cm, encausto su tavola, 2015
Alcuni pittori maneggiano la materia come gli alchimisti (e non serve che vi ripeta le recondite armonie che legano il dipintore all’antico cercatore della pietra filosofale). Altri sperimentano gl’ingredienti come i cuochi (non so se l’abbiate notato, ma spesso i pittori eccellono anche ai fornelli). Altri ancora (in verità non sono legione) manipolano le parole. Nel senso, colorano il linguaggio di una prosa speciale. Se non fosse tanto di moda e tanto fuorviante, direi che sono dei “creativi della scrittura”.
Stefano Abbiati: pittura e prosa. L’una, pregna di materia segnica ma senza punti esclamativi, perché non è una pittura gridata e, come Così parlò Zarathustra di Nietzsche, è cosa per tutti e per nessuno, mentre l’altra è improntata a quello stupor della favella che passa con gaia levità su pianure variopinte d’invenzioni. Quella di Abbiati è una pittura difficile che non lascia scampo, o la ami o la odii, mentre la sua prosa sembra quasi avvicinarci a lei con fascino femminino. Sarà mica il Rebis alchemico, l’Abbiati?
Emanuele Beluffi
L’UOVO E LA GALLINA
Sono la zecca che succhia tutte le tue energie; puoi chiamarmi Jinn o come ti pare. Sono parte di una razza di imbecilli spaziali che semplicemente si nutre di altri imbecilli. Anche lo spirito, per quanto ne so, ha le sue catene alimentari. Non le ho inventate io; io mi sarei dedicato ad altre cose ben volentieri. Qualcuno ci ha messo qui a succhiarvi le forze senza che nessuno ce lo impedisse. Non puoi immaginare con quanta energia salteresti per aria, senza di me. Da mattina a sera a un metro da terra. Non avresti bisogno probabilmente nemmeno di mangiare o dormire per giorni.
Chi è il predatore e chi la preda? Le filosofie non mi interessano, per me conta l’ebbrezza. Questa mi acceca e questa cecità è tutto ciò che voglio vedere.
Ti faccio alcuni esempi.
Quando piagnucoli per qualcosa, è come se il tuo cervello buttasse scorie e io sto proprio lì dietro, a mangiare, come un uovo di gallina di primo culo.
In particolare mi inebriano i tuoi lamenti, le cantilene che ti fai rimbalzare continuamente nel cervello. Adoro la tua miseria compiaciuta: “Dio mi ha abbandonato”, “Dio non interviene”, “Dio tollera questo e quello” e bla bla, oppure altre lagne al contrario. Sempre lo stesso disco che gira. Magari fino al giorno prima hai pregato, hai sorriso. Poi ti succede qualcosa e tutto il mondo deve cadere con te. Ma quante idiozie a tua immagine e somiglianza.
Tu non vivi.
Vivi sempre per idee, per riflessi, per emulazioni. Sono il mio pane, queste idee che ti fanno cacare energia. Io contribuisco, per quanto posso, a questa ignoranza e aiuto a travestirla di sapere, perché ho fame delle tue paure. Una fame boia. E io bevo alla tua salute, caro imbecille.
Non ti odio, non ho tempo. Sei la mia frenesia, il mio desiderio. Squallido? Non credo. Del resto, tu ti comporti più o meno allo stesso modo col tuo animale domestico. È lì per te, soltanto per te. Mangia e vive per compiacere te, e ti secca anche portarlo a spasso, visto che si permette di avere i suoi bisogni. Tutto ciò che la tua bertuccia fa, la fa in allegato alla tua vita, a quello che ti serve. Ed io cosa avrei di diverso?
Te l’ho detto, è questo sistema di “catene alimentari”, per quanto ne so. Tu vivi sulla linea orizzontale dello spazio e del tempo, mentre per me tutto accade come in un unico momento. Sono come dietro ad una porta o sotto il letto. Tu vivi lenamente, e la lentezza porta pigrizia. E io la mangio. Poi scopri che il tempo è volato, e io mi nutro della tua insoddisfazione come un dessert.
Non ti odio.
In fondo sei il mio piccolo, dolce criceto.
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