L’UOMO CHE CADE E ALTRE STORIE DI CECITÀ

0 Posted by - August 8, 2010 - Approfondimenti

Da dieci anni a questa parte, la mia vista ha subito un peggioramento allarmante. Non è chiaro se sia in atto un processo degenerativo inarrestabile, che colpisce in particolare l’occhio sinistro, o una perniciosa elasticità del cristallino destinata, si spera, a stabilizzarsi.

La mia perdita della vista è direttamente proporzionale all’invasione delle immagini nel mio quotidiano, che proliferano come batteri in uno specchio d’acqua stagnante. Questo handicap fa sì che ogni sguardo sia per me un atto conseguente a una scelta. Se non indosso un correttivo artificiale, i miei occhi sono destinati a mancare la visione, a recepirla in maniera fallace. Ciò che all’apparenza è una menomazione, è invero un memento costante all’operazione critica di scegliere l’oggetto del proprio sguardo, una forma di resistenza alla passività del voyeur, alla tentazione smaniosa dell’iconofilo.

Una cecità di diversa natura, invece, bianca, lattiginosa, mi sembra che si diffonda silenziosamente, velando gli occhi degli spettatori, come nell’omonimo romanzo di Josè Saramago1.

Una cecità ambigua, che anestetizza ma che al contempo racchiude un anticorpo salvifico.

Bulimia e anoressia, cupidigia del visibile e ripudio di esso. Iconoclastie, quindi: sostantivo plurale, molte e non una singola accezione, perché il nome è diventato cose, aprendosi a nuovi significati, sfaccettandosi. Rifiuto e volontà di distruzione delle immagini, non solo di quelle sacre, ma anche di quelle desacralizzate, iconoclastie dagli esiti diversi che sono la prova testimoniale di una ferita aperta.

La storia dell’arte visiva degli ultimi venti anni è una storia di ipervisione. Il cinema, nella sua natura di spettro filmico e luogo per eccellenza della simulazione, ha intuito e portato alle estreme conseguenze questa maledizione dell’immagine che ci assedia. È stato al tempo stesso sguardo analitico e oggetto problematico; ha colto i segni di ciò che accadeva in tempo reale, come un sismografo, e si è fatto portatore di un virus, tramutandosi in elemento contaminante, andando ad abitare cellulari, computer, palmari, schermi metropolitani, supporti di ogni forma e natura. E gli spettatori, – ché l’Occidente e buona parte del resto del mondo possono definirsi ormai umanità spettatrice – felici di sottoporsi a una cura Ludovico, sono stati travolti da uno Tsunami visivo di cui si poteva solo presagire la portata. Uno pseudo-sapere che si dipana come radice vegetale, in maniera antigerarchica, fluido e rapido, e che trova espressione ideale nei link del web che aprono infinite porte e inducono a cercare informazioni compulsivamente, in una fame di conoscenza effimera e di vedere senza requie. Momenti in cui il rumore è così forte che bisogna chiudere gli occhi, un rumore visivo che sovrasta tutto, immagini che si cannibalizzano in un flusso incontenibile di frame in continua germinazione.

Partendo dal prodromico Videodrome del 1983, passando per Gummo, Minority Report, Gerry, Dolls, Inland Empire, Imago Mortis, Redacted, mentre decine di pellicole hanno dissezionato il corpo stesso del cinema e del contemporaneo, analizzando con spietata lucidità il valore dell’immagine, l’arte visiva dell’ultimo ventennio tracciava percorsi rizomatici, aggrappandosi al baluardo del corpo come ultima ancora al reale, indagando i confini e le geografie umane, ibridandosi con la scienza; un’arte non sempre pronta a cogliere il dramma in atto, sovente ripiegata su se stessa, sovente autistica. L’atto del guardare implica il costituirsi di una relazione (con una cosa, un luogo, un oggetto), così come innesca un processo di conoscenza, seppure sommario. Se l’immagine rappresentata è vuota, priva di senso, se tutto diviene fantasmagoria, il processo di conoscenza si incrina, lo spazio tra il soggetto e l’oggetto dello sguardo si dilata innaturalmente e si verifica una scollatura di senso.

Cecità scelte o subite, abbagli e oscuramenti, iconoclastie rabbiose o ingordigia dello sguardo, l’arte beccheggia tra dicotomie violente. In tale annebbiamento si sono scorte però traiettorie, percorsi che portano il marchio a fuoco di una nuova iconoclastia, incarnata dalle poetiche di autori come Félix González-Torres, Christian Boltanski, Olafur Eliasson, Regina José Galindo, Wolfgang Laib, Janieta Eyre, Doris Salcedo, autori che scelgono percorsi ardui, problematici, testimoni di un rifiuto dell’immagine progenerata e conseguente scelta di decostruire radicalmente le strutture visive dell’arte. Dai padri Piero Manzoni e Vincenzo Agnetti, Franz Klein, Ad Reinhardt, Joseph Beuys, Mark Rothko, Rudolf Schwarzkogler, Emilio Vedova, Alberto Burri, Gerhard Richter, risalendo su su fino alla frattura di Duchamp, di Malevič, e del furore dadaista, ciò che sembra designare attualmente la differenza tra il flusso neopop, ipertrofico, gassoso d’immagini svuotate e la produzione d’immagini di senso è una forma di recuperata iconoclastia, un rifiuto primario dell’artista che non si concede allo spettacolo, alla messa in scena, per ricercare invece le categorie radicali del politico e del poetico.

Ripensavo a The Falling man2, un’immagine potente alla cui malìa non è possibile sottrarsi. Lo scatto di Richard Drew, celeberrimo, coglie un istante del volo suicida di un uomo che, durante attacco terroristico del Undici Settembre 2001, si butta dalla North Tower del World Trade Center.

Apparentemente galleggiante nel vuoto, colto in una posa plastica da tuffatore, si staglia contro le geometrie minimaliste delle facciate di una delle Torri Gemelle . La fotografia in questione non è un’opera d’arte ma uno scatto accidentale, e questo toglie ogni scampo a chi guarda.

L’immagine mi accompagnava da giorni e questa notte, improvvisamente, ho sognato Yves Klein, impegnato nella performance Salto nel vuoto. Nella fotografia che documenta l’azione, Klein – che rifiutava la produzione di opere che rappresentassero il mondo secondo categorie predeterminate – appare sospeso, impegnato in un salto verso uno spazio satori, cercando l’immaterialità di matrice taoista che è senso e verità, perseguendo l’idea di assoluto attraverso un percorso di armonia scaturito dalla sua appassionata pratica dell’arte marziale. The Falling man è lo spietato opposto di quella fotografia, il doppio maledetto del volo kleiniano. Una caduta verso il nulla che rade al suolo ogni semantica, ogni dialettica, un’immagine che cancella tutte le immagini. Di fronte a tale potenza iconoclasta, solo un’operazione etica ed estetica altrettanto poderosa può salvare il visibile dall’annichilimento. Un’iconoclastia concorde nell’assioma di base ma profondamente divergente negli esiti, che neutralizzi l’immagine superflua e cancerosa, e che ricostruisca un sistema di valori attraverso l’attività critica. Forse la via è chiudere gli occhi, perdersi in una nube di non conoscenza. Dal grado zero, ricominciare a vedere.
[1] Josè Saramago, Ensaio sobre a Cegueira, Caminho, Lisbona, 1995. Per l’edizione italiana si veda Cecità, trad. Rita Desti, Einaudi, Torino, 1996

[2] Lo scrittore statunitense Don Delillo ha scelto la fotografia in questione come ispirazione per il suo romanzo Falling Man, pubblicato nel 2008, ma scritto all’alba dell’attentato e che, non a caso, racchiude tra i vari percorsi narrativi il personaggio di un performer che ripropone la caduta dell’uomo della Torre, buttandosi dai grattacieli di New York.
Silvia Bottani vive e lavora a Milano. Critica, si occupa di arte contemporanea e cinema. Collabora con diverse riviste di settore e, come curatore indipendente, con gallerie e spazi pubblici.

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