Luciano Fabro, tra i protagonisti del movimento di arte povera, rimpianto docente all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, dove ha insegnato dal 1983 al 2002, scomparso cinque anni dopo, rivive nelle sue opere, nei suoi scritti e nelle cinque generazioni di studenti che hanno frequentato le sue lezioni e che successivamente lo hanno eletto come maestro d’arte e di vita.
Per l’artista concettuale l’arte coincide con il fare, partendo da qualsiasi cosa come un presupposto per sviluppare e qualificare il proprio fare: il primo momento d’azione sta nello sguardo che opera nello spazio. Nel 1959 Luciano Fabro, nato a Torino nel 1936, si trasferisce a Milano, attratto dal clima effervescente di quegli anni dominati da Lucio Fontana, Piero Manzoni, Dadamaino, Castellani, Mario Nigro, gallerie coraggiose e critici come Carla Lonzi e Saverio Vertone.
Fabro nel 1965 tiene la sua prima personale milanese nella Galleria Vismara, dove espone Buco, Impronta, Raccordo anulare, Ruota, Struttura ortogonale assoggettata ai quattro vertici a tensione, Tondo e rettangolo: opere manifesto che operano intorno alla spazio e rappresentano il suo “fare arte” come “rispecchiamento della propria coscienza”. La coscienza del fare è legata all’opera sulle cose, trasformandole e dando a esse di volta in volta una diversa forma e quindi un nuovo significato. A Milano, nella Sala Napoleonica dell’Accademia di Brera, tra gli antichi gessi dei due Torsi di marmo, dono di Luigi Bossi, il calco del Cinghiale, il calco di marmo dell’Ilisso opera di Fidia, facente parte del frontone ovest del Partenone e i gessi delle Teste di cavallo della quadriga di Helios, di Dioniso, di Demetra e Core, di Afrodite in grembo a Dione e della Testa di cavallo della quadriga di Selene, provenienti dal frontone est del Partenone e altre sculture classiche, s’impone una maestosa scatola di carta bianco neve, d’impatto scenografico.
Si tratta di un ambiente ricostruito da studenti di Brera, aperto su due lati (recto e verso), di sei metri per quattro d’altezza, che vive di luce. Qui non bisogna avere fretta di andare, è necessario stare per osservare con calma l’effetto che provoca questo enorme white-cube sui nostri sensi. Tutto sta nel saper cogliere le ombre di calchi antichi, in particolare delle copie d’ingresso del Partenone donate da Antonio Canova all’inizio dell’Ottocento all’Accademia di Brera e altri bagliori che si proiettano su candidi fogli di carta. Questa installazione all’insegna di leggerezza, composta da quadrati di carta, vive di luce. Le fessure segnano i confini tra esterno e interno e stabiliscono un dialogo tra il passato e il presente. Così Fabro rivive nella ricostruzione, non casuale ma rilevante per dimostrare l’incontro tra l’artista e l’Accademia, del celebre Habitat di Aachen presentato nel 1983, il primo anno di docenza a Brera, dall’artista nella città di Aachen, Aquisgrana in Germania, mai esposto in Italia. La nuova versione dell’installazione ambientale, rifatta dagli studenti del corso di scultura, coordinati da Luciano e Carla Fabro, si erge su bacchette di ferro e incastri perfetti; il tutto risulta ineccepibile sul piano tecnico esecutivo, si percepisce una sintesi tra manualità e concetto, l’equilibrio tra lo spazio interno e quello esterno, che trasudano di proiezioni di luce, creando illusorie fessure sulla carta, sul pavimento e il soffitto, perimetrati da geometrie luminose.
Quello degli studenti è sicuramente un “fare corretto”, direbbe il maestro, ma questo ambiente non crea quel complesso sistema di relazioni vitali che tutti gli habitat di Fabro mettono in scena. Qui manca l’anima, sulla fragilità vince il manierismo tecnico. Inoltre le scintille e le abili composizioni di luci non bastano, non c’è tensione tra l’interno e l’esterno. La sensazione che si prova attraversando, dentro e fuori, l’enorme scatola di carta, una costruzione effimera apparentemente massiccia sostenuta da una fitta trama di sottilissime intelaiature di ferro, simile a un teatro delle ombre cinesi, è che possa essere fagocitata dal “peso” del passato da un momento all’altro. In questo spazio fragile, per quanto avvolgente possa essere, soccombe sotto il peso dell’ingombrante presenza dei calchi e delle opere antiche che, nella Sala Napolenica, restano le uniche protagoniste.
Luciano Fabro | 1983
Salone Napoleonico Accademia di Belle Arti di Brera
via Brera 28, Milano
www.accademiadibrera.milano.it
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