L’ARTE È CONCETTUALE SE VALE L’ICONOCLASTIA DELL’ASSENSO?

0 Posted by - August 23, 2010 - Approfondimenti

Il filosofo Jean Luc Nancy ricorda che nella storia occidentale il divieto di rappresentare non richiama solamente l’iconoclastia. La Bibbia parla più precisamente di «astensione dalle immagini». Nel Decalogo ebraico si vietano quelle «di ciò che è lassù nel cielo [e] di ciò che è quaggiù sulla terra, [e] di ciò che è nelle acque sotto la terra». Dunque la proibizione cade sull’intera realtà. Il divieto riguarda soprattutto le immagini scolpite. Come se dovessimo evitare di rappresentare Dio con forme d’una consistenza intera e autonoma, dotate di una vena più stabilizzante che ne favorisce la percezione idolatrante.

L’iconoclastia religiosa, infatti, concerne non tanto l’immagine in quanto tale, bensì l’idolatria che alimenta. L’importante è allontanare il rischio che Dio venga per così dire “fabbricato”, dipendendo dall’uomo soltanto. L’idolo sembra valere molto più per se stesso, anziché nel rinvio ad altro, tanto più, come ricorda Nancy, che viene fabbricato di frequente con materiali preziosi e durevoli, col legno che non si tarla, nella lucentezza dell’oro.

Per gli ebrei Dio manca d’una forma, di conseguenza è impensabile dargli un’immagine. Né lo troviamo in un luogo preciso, per cui confinarlo entro la statua pare insensato. L’uomo «è fatto ad immagine di ciò che non ha immagine»: una somiglianza che deriva comunque dal nulla. Il Decalogo evita di condannare tutte le immagini. Vanno respinte quelle che si danno nella “pesantezza” (o fissità) della loro presenza, come se esistessero solo in quanto “piene” di se stesse. Dio non è mai da qualche parte, stabilmente. E tuttavia l’idolo difetta del movimento. Il Dio ebraico si dà sempre nel dinamismo della sua rivelazione: come “parola” (tramite il Decalogo), “desiderio” (con le pratiche ascetiche), “visione” (intervenendo nella storia). I commentatori talmudici sostengono che si può dipingere un viso, ma non scolpirlo. E tuttavia la pittura si manterrà nell’incompletezza di se stessa. Nuovamente va respinta la pienezza in seno alla rappresentazione, dovuta alla “finitezza” dei parametri socioculturali, cari all’uomo. La completezza è sempre stabilizzante. Per gli ebrei manca una definizione di Dio, che sembra piuttosto “parola in se stessa”, così da farsi impronunciabile.

Nancy ci ricorda la condanna platonica all’immagine artistica, che si limitava a copiare doppiamente il piano universale delle Idee (nel medium della loro partecipazione al mondo, alle cose sensibili, care a pittori e scultori).

Nell’epoca moderna, solo il filosofo Levinas ha trovato un certo “interesse” per l’iconoclastia, senza respingerla. Secondo lui, il comportamento etico si dà amando la nostra alterità ancor prima di conoscerla. Basta la percezione del suo volto, che pure nell’esperienza comune racchiude in se stesso l’immediatezza d’una persona. L’alterità si vede nel nascondimento di sé, amorevolmente: è una forma di iconoclastia “positiva”. Essenzialmente, il Dio ebraico si dà solo ritraendosi da se stesso. Ciò comporta per l’uomo la testimonianza della fede.

Nancy aggiunge che Dio è una presenza che si dà nel senso di se stessa, senza un significato concettuale. Diventerà basilare allacciare la sua assenza alla fede che esista. Maurice Blanchot pensava che Dio fosse un ab-senso. Così la mancanza d’un suo concetto intellettuale si integra alla fede dell’uomo, nella distinzione con l’immanenza del mondo.

Il platonismo fa in modo che le Idee abbiano la supremazia razionale sulle cose sensibili. Nonostante l’intellettualismo, è chiaro che l’Iperuranio si astiene dal mondo, quanto il Dio ebraico. Ma potremmo intendere ambedue le relazioni in chiave più dialettica. Come le Idee platoniche partecipano delle cose sensibili, così la fede verso Dio ha senso perché c’è qualcuno ad averla: l’uomo. Peraltro, Nancy si convince che storicamente l’arte occidentale allontani l’idolatria.

Dal Rinascimento in poi esiste l’estetica del naturalismo, mentre nel Novecento si scopre quella dell’astrazione. In ambedue i casi, si tratta di un’arte che non chiede al fruitore di “prostrarsi”. Sia l’estetica del naturalismo sia quella dell’astrazione rappresentano qualcosa di dinamico (e tutt’altro che stabilizzante), dove l’ab-senso percettivo riguarda pure il livello immanente del reale. L’impressionismo esibisce la mutevolezza della sensibilità. All’astrattismo preme la reazione soggettiva innanzi ai colori e alle forme che troviamo nel mondo, nell’assenza geometrica da questo. Ricordiamo che per la fisica vale la “legge dell’entropia”. S’intende così la tendenza del mondo a raggiungere lo “stato del disordine”. Nella natura troviamo con difficoltà cose la cui forma è perfettamente di tipo geometrico: ovvero rettangoli, quadrati, triangoli, cerchi, trapezi ecc… Tali astrazioni ci paiono assenti dal mondo. La geometria di fatto annulla tutte le forme immanenti (che tendono al disordine), riducendole a sé.

Nancy dice che la rappresentazione non è la sostituzione d’un primo originale. Essa evita di riferirsi a certi modelli. La rappresentazione sembra invero la presentazione di un qualcosa che non è mai “pieno” (stabilizzato) a livello percettivo, o la presentazione d’una precisa idea nel “filtro” di questa con la materia sensibile. Per Nancy, pensare alla mera copia d’un modello iniziale risulta troppo banale. Seguita l’etimologia del caso, per i latini la re-praesentatio ha un prefisso di tipo essenzialmente intensivo, e non solo ripetitivo.

Ne deriva che il termine si dà in via “rafforzata”. La rappresentazione diventa una presentazione nella sottolineatura di se stessa. Il “rafforzamento” è dovuto al fatto che così noi percepiamo una certa cosa in modo più determinato, con maggior precisione. Anticamente, la “re-praesentatio” nasceva per mezzo del teatro, dove con la recitazione si sottolineavano gli accadimenti di qualcuno. Nel primo linguaggio giuridico, essa spiegava la produzione d’un documento, e dunque la prova (che rafforzava le posizioni dell’accusa o dell’imputato). Per Nancy, la rappresentazione è dunque un assenso alla cosa entro la sua assenza. Nella mancanza del modello iniziale (solo ingenuamente da copiare), resta il “rafforzamento” di questa, molto più a livello percettivo che tramite la riflessione concettuale. La rappresentazione porta con sé una fiducia verso il senso. Resta da chiedersi se l’arte contemporanea ci esprima esteticamente questo, in modo più o meno consapevole. Forse bisogna partire dalla rivoluzione del ready-made, iniziata da Marcel Duchamp.

Joseph Kosuth ci ricorda che l’artista al giorno d’oggi deve mettere in questione il senso stesso dell’arte. Qualcosa che proprio Duchamp sembra intuisca per primo. Storicamente, accade che secondo la concezione estetica del formalismo (cara alla tradizione classica) l’opera d’arte sia tale avendo una precisa morfologia strutturale. Basterà una tavola squadrata con la profondità di più colori entro il rigore delle forme, un blocco di pietra rimodellato dandovi la tridimensionalità della figura vivente. Ma a Duchamp col ready-made non interessa più il linguaggio dell’arte, bensì il singolo linguaggio dell’arte. Il fenomeno estetico non è tale per la morfologia (la struttura), bensì per la funzionalità (la contestualità). Duchamp trasferisce il problema della giustificazione artistica dal piano dell’apparenza a quello della concettualità.

Kosuth ci ricorda che una proposizione è sintetica quando la sua validità dipende dai dati dell’esperienza. Quella analitica, di contro, si regola unicamente a partire dalle premesse concettuali che contiene. Per Kosuth tutta l’arte è esclusivamente fine a se stessa, senza che rinvii ad altro. Mancandole un’esteriorità, sembra logico respingerne la validità di tipo empirico (dall’esperienza). L’opera d’arte ha un linguaggio sempre analitico, e dipende solo dalle sue premesse concettuali. Kosuth conclude che il fenomeno estetico è necessariamente tautologico, come accade per la logica o la matematica. La pittura o la scultura naturalistica si pongono paradossalmente nell’irrealtà, perché vedendole siamo pur sempre spinti a paragonarle col modello che rappresentano, a cui ovviamente diamo un valore maggiore. Il ready-made di Duchamp, cercando l’arte che metta in questione l’arte, ha un’essenza di tipo tautologico. Così possiamo dire che essa si dà nell’assenso verso l’assenza di se stessa. Una tautologia è condivisibile se la prendiamo con “fiducia” mentre manca ciò che va rappresentando.

Nel libro Sentieri interrotti, il filosofo Martin Heidegger studia l’estetica d’un quadro dipinto da Van Gogh. Là vediamo anche le scarpe d’una contadina. Per Heidegger, lei le calza con la cosiddetta “fidatezza” (verlassigkeit, in lingua tedesca). Modernamente l’uomo cerca la capacità tecnica per il suo vantaggio, ossia in via funzionalistica. Ma la contadina dipinta da Van Gogh non usa le scarpe. Non c’è alcun parametro concettuale in queste. La contadina calza una sorta di “mera cosa”, anziché uno strumento. Certamente le scarpe servono a lavorare nei campi. Una funzione che però lì non si giustifica in via concettuale. Heidegger dice che la contadina “si fida spontaneamente delle sue scarpe”. Un atteggiamento che gli pare anche etico, nella salvaguardia della loro “alterità”, rispetto a chi le porta. In tutti i casi, la “fidatezza” non chiama mai il “fideismo” (che naturalmente ha un’origine religiosa). La volontà della contadina nel suo calzare è spontanea, anziché “cieca”. Heidegger giudica che l’atteggiamento della “fidatezza” riguardi generalmente la ricezione dell’opera d’arte, che non si dà né in via strumentale (funzionalistica) né come “mera cosa”.

Per concludere, possiamo recuperare la tesi del filosofo Nancy. Una tautologia non rappresenta qualcosa, bensì rappresenta di rappresentare. Sia il ready-made di Duchamp che l’arte concettuale di Kosuth si esprimono esteticamente mediante una vera e propria “iconoclastia dell’assenso”.
 

Bibliografia:
1) J. L. NANCY, Tre saggi sull’immagine, tr. A. Moscati, Napoli, Edizioni Cronopio, 2007
2) J. KOSUTH, L’arte dopo la filosofia, tr. G. Guercio, Milano, Costa & Nolan, 2000
3) M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, tr. P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1999

 
Paolo Meneghetti è nato nel 1979 a Bassano del Grappa (VI). Laureato in filosofia con una tesi sulla fenomenologia francese di Deleuze, Derrida, Bataille, Bachelard e l’ermeneutica di Gadamer, Vattimo, collabora con diverse testate specializzate, fra cui Kritika, tenendo conferenze in tutta Italia.
 

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