Alla milanese mc2gallery la personale di una giovane promessa della fotografia, Jonny Briggs, formatosi al Royal College of Art, artista pluripremiato, segnalato tra i FOAM Talents 2014, inserito nella prestigiosa Catlin Guide e ritenuto fra i talenti promettenti nell’Inghilterra post Damien Hirst.
E io non potevo non intervistarlo.
Caro Jonny, iniziamo a bomba. Il tuo è un lavoro in forma di diario. Secondo me l’eccesso di autobiografismo in arte è un rischio pressante, perché un lavoro troppo autoreferenziale corre il pericolo di “non arrivare” anche a noi: il sentiero che dal ripiegamento interiore o dall’esperienza privata porta all’espressione (visiva) è spesso irto di bucce di banana su cui l’artista può fare un capitombolo portando con sè il proprio lavoro. Ma vi sono delle eccezioni: qui in Italia, tanto per fare un esempio, Moira Ricci in una (non proprio recentissima) serie di foto e video rivisita la propria storia e il proprio passato con risultato spesso sorprendente.
Ma torniamo a noi: The reconstructed past è, come anticipa il titolo della tua mostra, una ricostruzione, quasi un (ri)vivere nel passato, insieme a te.
Credo che, anche se non ci informassimo sul retroterra concettuale della tua produzione, potremmo interagire efficacemente con essa: l'”impatto”, diciamo, non manca e le opere vanno non semplicemente viste ma guardate, pena la perdita di accenti piuttosto importanti. A me per esempio è molto piaciuta The Cage, per quella sua aria di mistero e soprattutto per quell’effetto trompe l’oeil – che è anche il titolo di un’altra tua foto in mostra, fra l’altro! – che ci attrae a sé e ci obbliga quasi a ragionarci un po’ su.
Bene, dopo tutto questo pistolotto ti chiedo: proprio per la massiva attitudine diaristica della tua produzione, se non fossi Jonny Briggs che artista saresti? Faresti comunque un lavoro d’arte? So che uno dei tuoi artisti di riferimento è un illustratore (Henry Darger)
Se potessi scegliere, mi piacerebbe essere un filosofo o uno psicoanalista lacaniano, come Adam Phillips o Darian Leader. In un certo senso penso che stia facendo la stessa cosa con l’arte: la possibilità di collegare diversi pensieri per farne un insieme coerente, accettare l’ambivalenza, reggere uno specchio davanti a se stessi e osare guardare.
Io comunque apprezzo molto gli outing, in arte, di una specie di privacy epistemica: è notizia di questi giorni che un’intera collezione delle opere di un artista italiano realizzata nel corso degli anni da un collezionista italiano anch’esso e successivamente dispersa a causa di tracolli finanziari del proprietario, è stata poi riacquistata nel corso degli anni dal figlio e che ora è tornata, integra come prima, in mostra a Palazzo della Pilotta a Parma. Trovo che l’arte, spesso, ti sappia dare cose straordinarie. E’ anche il tuo caso?
E’ un legame molto interessante questo di cui mi hai parlato: un’eredità a effetto domino, con la responsabilità di riprendere ciò che è stato interrotto, per onorare i percorsi dei nostri padri. Anche se questa collezione era di per sé fatta da oggetti inanimati, possiamo tuttavia identificarci con loro. Una delle cose che amo dell’arte è che non ci sono risposte giuste o sbagliate, né modi di agire e di interpretare da considerare giusti o sbagliati. E’ un’arena in cui chi infrange le regole viene anzi premiato. E’ così profondamente liberatorio. Mi sono reso conto che questa cosa vale per tutti, artisti, visitatori, curatori, galleristi e collezionisti. Un sacco di collezionisti che ho incontrato sembrano avere un “settore” di interesse; una coerenza ambigua. Spesso mi identifico attraverso il mio lavoro con le altre opere d’arte che scelgono di acquistare: questo mi porta a riconoscere gli interessi della singola persona, come si esprime grazie alle opere d’arte di cui si circonda. In un certo senso, la mia pratica artistica si comporta come un amico. Come il mio amico d’infanzia invisibile; un rapporto col mio intuito. E’anche come una conversazione con me stesso; tra pensiero e intuizione, dove i pensieri seguono gli indizi che l’intuito lascia dietro di sé.
Vuoi parlarci della tua tecnica? Contrariamente a quel che può sembrare, mi pare vi sia assenza di post produzione
Ho lavorato in passato con il grande formato, in seguito ho virato verso la fotografia digitale. C’è qualcosa di artificiale, nella natura della stampa digitale, che si presta a una certa funzionalità. Mi piace polarizzare le immagini, laddove le parti di luce diventano più luminose, il buio più scuro, e il fuoco e il contrasto elevato fanno sembrare le scene quasi tridimensionali, facendo nascere un certo senso tattile; iper reale al punto da sembrare iper falso, come se fosse troppo bello per essere vero. Realizzo delle scenografie con l’effetto di suscitare incredulità, in modo da fondere insieme ciò che è reale e ciò che non lo è; questo è il punto in cui risiede la verità dell’immagine. Questa mentalità “folle” mi esalta; qualsiasi cosa sembra possibile. Credo che la fotografia è in un posto così interessante; se c’è qualcosa di anche lontanamente “strano” nell’immagine, si pensa che sia photoshoppata. Eppure, viste un po’ più da vicino, nelle mie immagini gli indizi di una verità nascosta non mancano. Il mio lavoro d’arte è come un gioco, un flirt, se vuoi. Poi, sai, questo tema ricorrente dell’artificialità è anche strettamente connesso con l’artificiosità del condizionamento sociale e della cultura, dentro e fuori la famiglia; pensa per esempio a come sembrano “costruite” le foto di famiglia, une messa in aprentesi di ciò che accade fuori da lì, fuori da quella cornice, al di là dei sorrisi forzati.
Un’altra opera su cui vorrei ci soffermassimo è l’installazione When something happens again it starts to feel normal Mi ha fatto pensare alla sorte della falena, che si “suicida” sbattendo contro le fonti di luce…
Sì!! Mi piace questo collegamento. Mi ricorda una delle lezioni più importanti nell’infanzia; la conseguenza di inseguire liberamente i propri desideri. Una fotografia di nuvole, scattata dal giardino dei miei genitori, è stato stampata su vinile, fissata sul muro esterno e ri-fotografata. Questa parete è un confine tra l’interno e l’esterno. Il vetro della foto appare fracassato, con la colomba che si è schiantata al suolo. La colomba è un simbolo di pace, mentre le nuvole si collegano alle copertine dei libri religiosi della mia infanzia. La colomba sembra essere stato ingannata. E’ questa visione ideale, che ci inganna; siamo imbrogliati da un’immagine che non esiste, cioè che scopriamo essere falsa. La fotografia sembra una finestra. é una specie di ovvietà verso cui noi siamo come ciechi. La scena si ripete; apparentemente identici come una scoperta casuale negativa. Hai mai vissuto uno di quei momenti in cui la storia si ripete? Ad esempio una relazione distruttiva? Diventiamo dipendenti da un sentimento negativo perché ci ricorda il passato: a volte la coperta di lana che ci tiriamo sui nostri occhi è così confortevole che non vogliamo sollevarla. Cerchiamo di ripetere il sentimento negativo per curarci in modo consapevole e non. A volte la nostra coperta che ci protegge può farci bene, a volte invece ciò che abbiamo usato per nascondere la negativa realtà’ diventa troppo comoda e non vogliamo sollevarla.
Nello stesso modo il gioco del doppio scatto e’ molto interessante per me per analizzare la sottile linea che separa il singolo dal multiplo. Spesso noto che le cose sono molto più collegate di quello che appaiono all’inizio, per questo mi piacciono molto le coincidenze.
So che questa non è la tua prima esperienza italiana. Hai avuto modo di guardarti un po’ in giro?
Amo l’Italia: l’architettura, il cibo, il caffè, il vino, le persone, le piazze, la moda, il tempo, le rovine romane. C’è molto da dire su come una rovina può essere molto esteticamente più gradevole di una costruzione nuova fiammante. Forse perché riconosciamo la nostra mortalità all’interno di questa rovina: cerchiamo di preservarla. O forse ci stimola a immaginare cosa poteva esserci stato lì.
Se lo dovessi dire con una sola parola, una sola e possibilmente con punto esclamativo :D, qual è la differenza veramente fondamentale fra il panorama artistico inglese (nella fattispecie la fotografia) e quello italiano?
Mo(n)strare! La parola latina “mostrare” si è evoluta nell’Inglese in “mostro”. Mentre in Italiano si è evoluta in senso duplice, le parole “mostra” e “mostro”.
Progetti futuri?
Quello che mi entusiasma di più nel rispondere a questa domanda è che…non lo so! Spesso mi sorprendo della direzione che sto seguendo grazie al mio lavoro. Non avrei mai immaginato, un paio di anni fa, quello che sto facendo adesso e per questo posso tranquillamente dire che il futuro è prevedibilmente imprevedibile. So solo che se potessi vedere nel futuro sarei sorpreso!
Jonny Briggs | The reconstructed past
A cura di Claudio Composti ed Emanuele Norsa
In collaborazione con: Ncontemporary, London
29 Settembre – 29 Ottobre 2015
mc2gallery, via Malaga 4, Milano
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