Il dialogo con l’arte classica è vitale e rigenerante per l’arte di tutti i tempi, ma per gli artisti del presente è un presupposto formale che riserva exploit anche dissacranti, elaborati per superare revisioni vacue o peggio nostalgiche e citazioniste. La dialettica con il passato si basa sul processo di rielaborazione soggettiva di valori universali. Jonathan Monk (1969 Leicester, Inghilterra), prima personale Senza Titolo, allestita dall’artista stesso alla Lisson Gallery di Milano, tempio dell’arte concettuale internazionale: andateci, e vedrete vincere il confronto con la statuaria greco-romana in omaggio alla cultura italiana, a colpi di ironia con una soluzione site specific pop minimalista davvero sorprendente. Jonathan Monk per questa mostra milanese ha fuso e modellato cinque forme della propria testa in jesmonite, un materiale levigato simile al marmo, ognuno dei quali è leggermente più grande della dimensione naturale, con capelli che sembrano impomatati di gel e uno sguardo autorevole.
Le teste s’ispirano alla statuaria classica romana, esposta nelle gipsoteche e musei e non potevano non essere issate su basamenti, parallelepipedi di formato più alto della media, come omaggio al Minimalismo americano. Entrate nella sala bianca come il latte al piano terra della Lisson e vi sentirete osservati da imperiosi sguardi di un artista che sembra spiarvi dall’altro verso il basso, come a dire: contemplatemi pure, sono qui per essere celebrato per il mio ego creativo. Attenzione, non prendetelo sul serio, perché Monk…ci prende per il naso. Basta osservare bene questi ritratti e vedrete che tale atteggiamento dada è evidente dal naso sfigurato di quattro teste, da colpi di martello sferrati su invito dell’artista da parte di Jannis Kounellis, Pier Paolo Calzolari, Emilio Prini e Gilbrto Zorio, esponenti del movimento di Arte Povera e attuali star del sistema dell’arte. La testa con il naso rotto da Zorio si distingue per un piccolo grumo di argilla gialla, che rompe il candore unitario della scultura, introducendo un elemento “alchemico”, vivo.
Certo tutti gli artisti rubano o rielaborano idee e opere di altri che li hanno preceduti, ma in questo caso il passato si rivitalizza nel gesto, nell’azione dissacrante di autori già noti che, intervenuti sulla scultura – metafora dell’artista ingessato nel suo egocentrismo, invitano a riflettere sul loro ruolo e sulla serialità delle opere. Tale concetto è risolto rispettando una tensione formale assolutamente classica , sollevando dubbi sull’autorialità dell’artista, anche per il fatto che le opere non hanno un titolo.
Sbirciate nel giardino interno della galleria, un’isola di verde d’incantevole bellezza, dove compare una grande scultura in bronzo realizzata da Monk, dal titolo Covered Motonike (2013), una misteriosa moto simbolo della modernità e della velocità completamente ricoperta da una tela cerata, qui monumentalizzata e glorificata come icona dell’epoca industriale e trasformata in scultura omaggio a Henry Moore e altri scultori del Novecento. Fate una riflessione semiseria sulla permanenza del classico nell’arte contemporanea anche guardando The Void (2013), una lastra di marmo d’impatto cimiteriale venata di grigio, collocato all’entrata della galleria, all’altezza di un termosifone che rappresenta la parte posteriore del furgoncino a ruote Ape Piaggio, un veicolo vintage che qua e là compare per le strade o parcheggiato nei vicoli popolari di Milano.
Dicono che un giorno Monk, mentre si trovava alla Lisson, abbia origliato i discorsi di due tecnici mentre discutevano tra loro sulla possibilità di sistemare The Void sul retro di un furgoncino . All’artista è venuto in mente l’Ape, un oggetto piccolo e grande allo stesso tempo, che insieme alla mitica Lambretta, è diventato un classico della creatività industriale del design italiano: sembra paradossale, ma anche questo è un altro modo per rendere omaggio all’Italia con stile.
Grazie Jonathan Monk!
Lisson Gallery
via Zenale 3, Milano
www.lissongallery.com
milan@lissongallery.com
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