IO NON SONO QUI

0 Posted by - September 22, 2009 - Approfondimenti

Kritika onpaper # 1 – Milano – 22 | 09 | 2009

L’arte contemporanea si fa testimone del progressivo allontanamento dell’uomo dalla città. Proteggendosi nelle proprie abitazioni e in se stesso come in una gabbia.

Esiste uno stretto rapporto tra corpo, casa e città, un sistema paragonabile a una matrioska: una figura che ingloba se stessa in dimensioni progressivamente ridotte. L’approccio culturale contemporaneo abbatte i rigidi confini freudiani nella percezione del rapporto individuo-società-ambiente, descrivendo la figura come parte dello sfondo, la cui trama fa sempre parte della figura stessa, secondo un eloquente immagine interpretativa fornita da Stephen Mitchell . Eppure questa reciprocità non abbatte la discrepanza percettiva tra noi e gli altri, tra noi e il luogo cui apparteniamo. Lo scenario cittadino vede più interpreti in un’evoluzione dialettica. Le pareti sensibili del nostro corpo custodiscono sentimenti e pensieri, i muri delle nostre case proteggono il nostro corpo dalle aggressioni esterne, la città è teatro di relazioni e conflitti, il cui allontanamento dalle concrete esigenze dei suoi abitanti reca disagio e alienazione. Sarebbe interessante chiedersi perché la città, con le sue piazze e i suoi cortili, da spontanea forma aggregativa umana, che risponde a esigenze pratiche e funzionali, definita da Clifford Geertz come l’habitat naturale del pensiero umano , si sia trasformata in un luogo poco agevole per chi la popola.

Qualche teoria interessante viene esposta da Franco La Cecla in Perdersi, mettendo in luce un passaggio importante dalla società pre-industriale, che si riversava sulle strade, nelle piazze, nei cortili per svolgere attività di sussistenza, feste e ritrovi, alla segregazione industriale e post-industriale, sollecitata da quelle normative che dal XVIII e XIX secolo iniziarono a osteggiare la spontanea vita comunitaria negli spazi esterni. In vari comuni italiani, per motivi di ordine pubblico e igienico, le Commissioni Sanitarie Municipali iniziarono le proibizioni alla vita di strada che avrebbero reso il cittadino “solo un passante o un individuo definito da un’assenza: il pedone”. La strada acquisisce una connotazione negativa e confluire in essa, rendendola luogo di ritrovo o di attività pubbliche, diventa un comportamento da contrastare, poiché sinonimo di uno stile di vita pericoloso e misero . Seppur non esclusiva causa dell’allontanamento dell’uomo dal sua ambiente, questa nuova concezione permeò a fondo la mentalità comune e lentamente gli abitanti delle città si chiusero tra le pareti, domestiche e non. Lo spazio esterno è diventato lentamente un luogo di passaggio che non appartiene più ai cittadini, se non per il transito da un edificio all’altro entro cui svolgere le attività quotidiane. La metropoli moderna si delinea come un tripudio di non-luoghi o luoghi vissuti passivamente, luoghi di transito, talvolta avvertiti come ostili e freddi. Inoltre non ha aiutato il fatto che gli stessi edifici sono sempre più espressione delle manie di grandezza di illuminati architetti, che non luoghi d’accoglienza per i cittadini, sempre più alienati dalla realtà urbana. E appare così attuale la riflessione sull’architettura barocca del settecentesco Gasparo Gozzi: se uno straniero “vedesse le case nostre, e non gli abitatori, crederebbe che fossero giganti”.

Lo storico sociale Robin Evans parla di una lobotomia generale, di segregazione, di impoverimento dell’universo sensibile dello spazio urbano. Azioni sociali di pulizia e controllo esercitate dalla società per preservare se stessa da disagi, malattie e confusione, ma con un aspro rovescio della medaglia. L’arte non può fare a meno di intervenire manifestando inquietudine e dissenso. Marina Paris nei suoi Public Spaces e nel video Less than five minutes, realizzato con Alberto d’Amico, rappresenta contesti pubblici svuotati dalla presenza umana, come se l’uomo si sottraesse allo spazio da lui stesso creato. L’artista sviluppa un’interessante riflessione sul rapporto tra l’individuo e il suo ambiente, mettendo in luce quel senso di straniamento e alterazione percettiva scaturita dal fatto che l’abitante non è più il destinatario dell’architettura urbana, ma un semplice “attraversatore distratto”, necessariamente passivo. Da questa distorsione contestuale scaturiscono ansie e paure contemporanee: la mancanza di controllo sul nostro spazio, avvertito come estraneo e ostile, così come i suoi minacciosi e sconosciuti abitanti.

Ansie sedate dalla ripresa di controllo percepibile nella ricerca della giovane Donatella Simonetti, che nella serie di scatti Il vuoto di Berlino, fotografa una città fredda, geometrica, nitida, come per tentare una possibile razionalizzazione del contesto e delle paure, pur riconoscendo il sentimento dell’assenza come implacabile soggetto della sua ricerca. Sulla stessa linea troviamo la pittura di Paolo Fiorentino che raggiunge un gioco di astrazione-costruzione, distorsione prospettica controllata.

All’opposto la rappresentazione apocalittica, sfuocata, angosciosa di Alessandro Busci, un’ interpretazione emotiva che si contrappone al rigore, per esorcizzare l’inquietudine attraverso la pittura. L’arte prova così a riappropriarsi dello spazio urbano, permeando la rappresentazione dell’inquietudine interiore o con un concreto moto di riconquista spaziale con la Street Art, modificando l’aspetto e la funzione di “quel luogo minaccioso chiamato casa”.

Come anticipato sopra, il nuovo ambiente dell’uomo è lo spazio chiuso con una specifica destinazione. Candida Höfer, quando ritrae interni contemporanei, ci parla di raffinati involucri congelati e spopolati, destinati a un’umanità evanescente e in perenne corsa. Le abitazioni sono i nuovi rifugi dall’ostilità esterna. Gli interni abitati delle case sono gli ultimi nuclei a poter parlare di noi nell’impersonale contesto urbano. Lanciano un lamento, si contorcono e si spezzano le case di Daniela Renier, come un corpo umano che somatizza un profondo dolore interiore. Il forte impatto delle opere è reso grazie all’utilizzo di materiale di recupero, la cui erosione rimanda al concetto dell’implacabile trascorrere tempo e del decadimento fisico. Assistiamo inermi alla solitudine che ci divora giorno per giorno, sempre più lontani l’uno dall’altro. Abitiamo piccoli appartamenti che ospitano singole famiglie, sempre meno numerose e sempre più concentrate sull’intimità, come qualcosa di prezioso da proteggere. E nelle stanze si avverte quell’angoscioso silenzio che percepiamo anche in noi stessi, da quando sono state estirpate quelle spontanee aggregazioni che caratterizzavano la società umana, per chiudere le gabbiette in cui ci siamo intrappolati, gettando via la chiave.

Le stanze di Mirka Pretelli, colme di inquietudine, comunicano questa distanza e incomunicabilità tra gli esseri umani. Le moderne società occidentali sono afflitte da nuovi mali come ansia e panico: quella frustrante sensazione di impossibilità di controllo del proprio corpo nasce forse da una perdita di controllo sul proprio ambiente. La matrioska si chiude ermeticamente. I confini tra le fagocitate figure che la compongono sono sempre più rigidi.

Nila Shabnam Bonetti è critico d’arte e presidente di Laboratorio Alchemico. Nasce a Milano nel 1980 da padre italiano e madre iraniana. Si laurea nel dicembre 2007 in Conservazione dei Beni Culturali, Università degli Studi di Milano, con tesi sull’organizzazione di una mostra documentaria. Ha collaborato, curato e organizzato diverse mostre e scritto per Artribune, KritikaOnline, Lobodilattice, Equipèco e Arsprima.

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