Autunno caldo per Enrico Baj, artista dissacrante e irriverente di scena a Venezia alla Biennale con una selezione di Dame, già presentate nel “museo immaginato” di Cindy Sherman e a Milano sono in corso due mostre: una alla Fondazione di Arnaldo Pomodoro e l’altra alla Fondazione Marconi, diverse ma complementari per scoprire, a dieci anni della sua scomparsa, la prolifica carriera del protagonista del Movimento Nucleare, nonché membro del Collegio dei Patafisici assieme a Umberto Eco e Dario Fo. Ce ne parla in questa intervista Giorgio Marconi, amico e suo gallerista.
Giorgio Marconi a Milano è un mito vivente: una viscerale passione per l’arte, una galleria in via Tadino, (ora Fondazione) e un coraggio pioneristico nel proporre artisti oggi passati alla storia. Come e quando ha conosciuto Enrico Baj e perché è diventato suo gallerista?
Quando mio padre dovette chiudere la sua corniceria per ragioni di salute, io ero studente di medicina con l’intenzione di dedicarmi alla psicologia. Con l’arroganza della gioventù decisi di riaprire la corniceria pensando che la mattina l’avrei dedicata agli studi e il pomeriggio al lavoro. Pian piano abbandonai gli studi universitari per fare il corniciaio a tempo pieno e così conobbi il mondo dei pittori, tra cui Baj. Andai nel suo studio, vidi le sue opere e mi apparvero subito intriganti, diverse da quelle che conoscevo degli artisti del Novecento. Baj, a quei tempi, aveva un contratto con Arturo Schwarz, ma arrivammo ad un accordo a tre e iniziai ad occuparmi di una parte del suo lavoro: opere su cartone, anno 1960. Baj e Schwarz in realtà si divisero quasi subito, mentre io continuai la frequentazione di Baj come amico e pittore. Da lì nacque un sodalizio che durò tutta la vita.
Perché ha deciso di diventare il suo gallerista e di investire nel Movimento dell’Arte Nucleare negli anni in cui in Italia le ricerche nell’ambito degli informali venivano guardate con sospetto? Con Enrico Baj eravate amici, avete condiviso un clima culturale effervescente, amicizie artistiche e non, mostre, viaggi ed esperienze e chissà, forse amori, ma com’era Baj nel privato? E quale aspetto del suo carattere non sopportava?
Forse l’unica cosa è che voleva sempre avere ragione, ma si sa che gli artisti sono sempre un po’ dirigisti e pensano di avere idee e visioni migliori delle tue.
Con Baj e altri protagonisti di Milano degli anni Sessanta, quando era una capitale dell’innovazione, lei ha vissuto una stagione vivacissima in bilico tra tradizione e innovazione, ma cosa l’ha spinta ad aprire una galleria?
A Milano in quegli anni mancava uno spazio espositivo per i giovani, un punto di riferimento, di scambio, di incontro tra artisti, collezionisti, nuovi appassionati, critici, intellettuali e quella nuova classe emergente, curiosa e assetata di novità che si stava formando nella Milano borghese e professionale. E così decisi di aprire lo Studio Marconi.
Ricorda qualche aneddoto in particolare che svela la natura ironica, dissacrante e polemica di Baj?
Nessun episodio in particolare, solo che dopo alcuni anni dalla morte di Baj, la moglie Roberta mi portò un pacco contenente un dossier di lettere scritte per me che però lui non mi aveva mai spedito. Forse Enrico non voleva criticarmi o comunque ribadire quello che già mi diceva a voce. Forse temeva che le sue idee potessero essere origine di crisi tra noi due. Lessi tutto il plico di lettere. Non c’era niente che non mi avesse già detto a parole.
Si pente di non aver preso qualche opera che oggi vale milioni di euro. Se sì, quale?
Come tutti, mi sono pentito parecchie volte e sicuramente ho perso delle occasioni. Di Baj posso dire che mi sarebbe piaciuto avere la sua Guernica.
Come descriverebbe la poliedrica personalità di Enrico Baj a un ventenne di oggi?
Grande analizzatore della società e dei costumi, Baj ha sempre mosso ampie critiche alla società borghese, di cui lui stesso era figlio. Sempre un po’ profeta nei confronti della situazione politica e della classe dirigente. Era un uomo di cultura lui, un intellettuale puro.
Cosa espone nella mostra in corso nella sua Fondazione e quali sono gli inediti da scoprire?
Sono tutti quei disegni che comperavo da lui e che non ho mai né venduto né esposto, perché allora mi interessavano di più le opere. Una selezione di 24 bozzetti realizzati su carta da riciclo raccolti nel corso di dieci anni. Mi ricordo che ne compravo a pacchi e lui stesso era molto generoso. A volte erano anche un po’ “maltrattati” perché erano studi di opere che stava pensando di realizzare.
Quale serie di opere dell’artista polemista, schierato contro il sistema dell’arte, considera più innovativa e perché?
Sicuramente i primi lavori del periodo nucleare e quelli degli ultimi anni: nei combinatoires c’era tutta la sua genialità nel combinare le materie e i pensieri tutti assieme. E il risultato è questa grande confusione che è ricerca di vitalità.
Ha faticato a vendere Baj a collezionisti esteri prima della sua scomparsa?
No. Baj ha sempre avuto molti collezionisti stranieri e basta guardare quanti musei esteri hanno sue opere nelle loro collezioni per capire che è uno degli artisti italiani più accettati all’estero.
Perché secondo lei oggi tra gallerista e artista mancano la relazione umana, la condivisione di esperienze, la fiducia e la solidarietà? Ora prevale un atteggiamento manageriale della gestione dell’arte contemporanea, secondo lei non è una perdita di valori?
Sì, parzialmente. C’è troppa velocità nell’analisi della qualità e dei costi delle opere d’arte. E la finanza è entrata pesantemente negli affari dell’arte.
Enrico Baj | Segni e disegni
Fondazione Marconi Arte moderna e contemporanea
via Tadino 15, Milano
info@fondazionemarconi.org
www.fondazionemarconi.org
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