Kritika onpaper # 2 – Milano – 04 | 03 | 2010
Hai iniziato giovanissimo come giornalista, affermandoti poi come critico e curatore. Attualmente sei direttore scientifico degli spazi espositivi di Legnano, dove hai realizzato una serie di mostre, da Varlin a Cremonini, solo per citare due autori, caratterizzate da una ricerca attenta a scavare tra le pieghe del contemporaneo, portando alla luce autori preziosi, mai “sovraesposti”, se mi concedi il termine. Vuoi raccontarmi cosa vedi di cambiato dai tuoi esordi ad oggi, rispetto ai giovani che cercano di affermarsi come critici?
La mia esperienza critica inizia in un quotidiano. Appena finito il liceo ho iniziato a scrivere per un giornale locale di cronaca per arrotondare mentre studiavo. Dopo due anni, nel 1997, sono diventato giornalista e ho cominciato a collaborare con la pagina culturale di un quotidiano nazionale, passando poi per altre varie testate. Ho sempre dato molto peso alla mia attività giornalistica perché la cronaca insegna a essere sintetici e chiari. Attraverso le interviste e le recensioni ho conosciuto molte persone del mondo della cultura e mi sono fatto conoscere. Non credo sia cambiato molto, gli errori sono gli stessi e anche le opportunità, forse rispetto alla generazione prima di me quelli che partono ora sono più presenzialisti, meno preparati sulla storia recente, ancora più influenzati dalle riviste di settore o da alcuni luoghi espositivi. Mi pare sia più facile cadere nell’errore di adeguarsi al gusto del momento senza una prospettiva a lungo termine, ossia di presentare mostre collettive piene degli stessi nomi, dove il curatore potrebbe essere facilmente sostituito senza la minestra cambi sapore.
Nel 2009 hai scritto una sorta di manifesto, in occasione dell’esposizione di Sassu e di Matta, presente in entrambi i cataloghi, in cui presentavi l’Officina del Sale. Vorrei mi parlassi di questo progetto, a mio avviso molto importante.
In verità è un “non-manifesto” perché non ha contorni rigidi. Ho chiesto a un gruppo di giovani critici di collaborare alle mostre di Legnano, come curatori o scrivendo un testo per i cataloghi. Spesso fra colleghi manca il dibattito, soprattutto fra coetanei; a Legnano ho la possibilità di fare ricerca ed è stato normale aver fondato lì un gruppo di professionisti che desiderano crescere e confrontarsi insieme, sperimentando le difficoltà di organizzare mostre di storici e giovani artisti. Inoltre sto cercando di esportare l’esperienza in altri spazi pubblici dove lavoro. L’ho chiamata Officina perché vorrei che ci si sporcasse le mani, ossia si smettesse di immaginare il lavoro di un critico/curatore come un fatto solo teoretico, dove qualcuno ex cathedra pretende di stabilire cosa è giusto o sbagliato nell’arte. Il ruolo del critico o del curatore non può essere più importante dell’opera d’arte, deve invece accompagnarla, filtrarla, metterla in risalto, fare delle scelte.
Dal punto di vista critico, chi sono stati i tuoi padri?
Sgarbi mi prende in giro dicendo che sono testoriano. Sicuramente l’incontro con la scrittura di Testori mi ha offerto molto, ma se devo pensare a un critico non ho dubbi a dirti Luigi Carluccio. Poi senza dubbio Roberto Tassi, Marco Valsecchi, Emilio Tadini, Raffaele Carrieri, e Gianfranco Bruno che curò mostre eccezionali e di una intelligenza rara, buon pittore per altro. Persone di una professionalità incredibile, in grado di usare la lingua italiana per svelare e non celare le opere.
Rispetto alle nuove generazioni, chi sono i critici/curatori il cui lavori ritieni più interessante?
Benché non sempre accomunati da gusti e opinioni simili, ma sarebbe brutto il contrario, ammiro molto il lavoro di Alberto Zanchetta, e guardo con grande interesse come sta crescendo Gabriele Francesco Sassone, così come mi piace la scrittura e la visione di Davide Pairone; mi sembra ci sia un buon numero di ragazzi che stanno lavorando seriamente e bene, caratterizzandosi, come Laura Luppi, come potrei dire di te.
Riguardo la formazione dei giovani critici, ritieni che sia ancora importante avere una bagaglio di conoscenze storiche o che il magma contemporaneo, liquido, come lo definisce Zygmunt Bauman, necessiti di altro per essere compreso?
Una base storica fa sempre bene, ma non basta. Bisogna diversificare le letture e gli studi, non si può solo accedere ai testi specialistici di arte. Viaggiare serve molto, conoscere le opere nel luogo in cui sono nate o sono state collocate originariamente, capire perché fino a qualche tempo fa la produzione di un autore nato negli USA era differente rispetto a quella di un francese. Passare da una mostra di video a una di arte antica, senza preclusioni.
Negli ultimi anni, si è posta spesso la questione dell’interscambiabilità del lavoro del curatore e del critico. Abbiamo assistito a una proliferazione smodata di professionisti che si occupano con disinvoltura di entrambe le attività, come se l’una fosse imprescindibilmente legata all’altra. Pensi che ciò sia corretto o in qualche modo la leggerezza con cui ci si muove da un ruolo a un altro nasconda delle insidie?
Spesso non si tratta di professionisti ma di simpatici parvenue, e li riconosci dalla loro insidiosa urgenza di trovare un’etichetta consona che li definisca. Ho letto biglietti da visita improbabili di vari indipendent curator, una definizione che non significa nulla, soprattutto quando è scritta in inglese (che magari non parlano) e le mostre che curano sono in qualche losca galleria italiana, neppure ticinese. Mi domando quanto conti davvero perdere tempo con le definizioni e quanto piuttosto serva iniziare a fare questo lavoro senza tante menate mentali? Saranno gli altri a vedere il nostro ruolo e definirlo. E poi un curatore deve fare il critico, ossia deve compiere una scelta. E il critico può curare delle mostre per esporre la propria linea. Dov’è il problema? Casomai è una questione esistenziale, io non sono un critico o un curatore, io faccio di professione il critico e/o il curatore ma sono qualcosa di più complesso. Mi sembra una bella differenza.
Che caratteristiche deve avere, secondo te, un buon curatore?
Deve avere tanta pazienza. Deve sapere coordinare diversi gruppi di lavoro e saper gestire i rapporti umani, costruire un ambiente collaborativo guadagnandosi la fiducia di tutti. È impensabile che il curatore non viva di confronti, soprattutto quando gestisce un luogo continuativamente e dipende da una istituzione cui rendere conto; dunque è essenziale il rapporto con l’amministrazione – dal sindaco fino agli allestitori e il portinaio – perché tutti devono muoversi nella stessa direzione. Personalmente credo che il mio lavoro senza le persone che da anni mi supportano e seguono, come il mio ufficio stampa, il mio editore, i grafici, nonché gli artisti o galleristi, sarebbe monco. Il curatore deve saper lavorare e coinvolgere tutti, altrimenti fallisce. E alla fine deve riuscire a dialogare col pubblico, perché di converso non serve far mostre.
La figura chiave del mercato dell’arte contemporanea si può identificare nel collezionista, che detiene un grande potere decisionale, essendo in grado di orientare le scelte dei galleristi. Pensi che il ruolo economico del collezionista abbia in qualche modo scalzato il primato della riflessione critica rispetto alla valutazione delle opere?
Non reputo così netto il suo potere ed è lecito il collezionista investa nel mercato. Volendo essere estremisti ti direi che sì, i soldi modificano senza dubbio la valutazione. Se sai che un’opera costa milioni di dollari le presti più attenzione e ti pare già importante. Può darsi che spesso i collezionisti tralascino di ricercare opere che rispecchiano la loro personalità il loro gusto, anziché il loro portafogli, o le velleità di sembrare aggiornati e colti. Io ho iniziato a collezionare come molti perché in simpatia con l’opera, ritrovandomi in essa, avendone bisogno, piacendomi. Collezionare significa mettersi in discussione, crescere. Mi accorgo per esempio di non avere lo stesso gusto di dieci anni fa, e non potrebbe essere altrimenti: se guardo quello che ho collezionato capisco il mio percorso personale, unico e irripetibile.
Lavori e hai lavorato con importanti istituzioni pubbliche. Ritieni che per un giovane sia utile, e in che misura, fare esperienza in fondazioni e musei o la galleria è una palestra più utile per capire la professione?
Le gallerie sono un ottimo luogo in cui cominciare, in cui approfondire le proprie conoscenze, perché alcuni galleristi hanno la possibilità di aprirti veri scrigni d’arte, o ti possono offrire contatti, sostegno, conoscenza. Ma è un cammino lento, di fiducia reciproca. Però la galleria non basta, bisogna portare gli artisti a confrontarsi col pubblico, col museo o lo spazio espositivo ed è fondamentale misurarsi con le istituzioni perché il loro modo di lavorare è caratteristico; devi imparare a costruire dei rapporti, a costruire un progetto. Molti colleghi più giovani si fermano in galleria o portano la modalità che usano in quel caso anche nel pubblico: è insufficiente. Anche il confronto con una casa editrice importante è arricchente; molti giovani fanno cataloghi scialbi, standard, pieni di interventi grafici, mentre è bello poter mettere in crisi il proprio lavoro e imparare da chi ha più esperienza, magari alleggerendo l’impostazione editoriale cercando più testi critici, lavorando con la redazione.
Ci sono delle istituzioni, in Italia, che lavorano, nella direzione di sostenere e incoraggiare la nuova generazione di critici?
Poche, spesso cercano segretari e fotocopisti più che persone da formare. In Italia ho conosciuto assistenti di professori o curatori che hanno cinquant’anni e non sono riusciti a lasciare il cono d’ombra del loro pigmalione: lo trovo assurdo. Manca la possibilità di ricevere una formazione, e talvolta manca l’intelligenza e l’umiltà per cercarla o chiederla.
Intervistata a proposito della critica contemporanea e dell’arte, Lea Vergine sostiene che la figura del critico è ormai intesa come veicolo pubblicitario, mentre dovrebbe essere un mediatore tra l’opera e chi guarda. Suggerisce che abbia subito un deterioramento professionale. Cosa ne pensi?
Ha ragione, peccato che come altri della sua generazione abbia contribuito a costruire questo sistema. Il critico (o il curatore) ha il dovere di far risaltare il senso dell’opera d’arte o la sua interpretazione, come un direttore d’orchestra deve far risaltare la sinfonia, non la sua persona. Mi viene in mente uno come Muti, per esempio, che ha sempre lavorato per sé, e uno come Celibidache, che invece si è messo al servizio della musica. La Vergine, come altri, a un certo punto è divenuta più importante dell’opera d’arte, non solo dell’artista. Bonito Oliva è di sicuro più importante e interessante degli artisti che talvolta presenta.
Parlando di scrittura, che importanza ha il giornalismo d’arte per un giovane che si affaccia alla professione?
Raramente nelle riviste di settore si leggono articoli di giornalismo d’arte. Spesso sono testi frustrati di chi avrebbe voluto scrivere un saggio in catalogo e non l’ha potuto fare. Del resto molti scritti sulle riviste come nei cataloghi sono esercizi masturbatori, non servono a nessuno se non all’autore per far vedere quanto è ingenuamente colto. Il giornalismo è un’altra cosa: ossia dare una notizia, in maniera chiara, anche un’opinione, ma giustificata, come si fa per esempio sul Giornale dell’arte. Quando un testo è illeggibile, noioso, avvitato su se stesso non lascia nulla al lettore. Quindi diventa inutile.
Flavio Arensi collabora con enti pubblici e musei per mostre monografiche e collettive. Dal 2003 dirige gli spazi di Legnano (SALe)e attualmente lavora per ridefinire il programma espositivo della Mole vanvitelliana ad Ancona. Giornalista dal 1997, scrive su Libero e ha pubblicato con diverse case editrici, fra cui Skira e Allemandi.
Silvia Bottani vive e lavora a Milano. Critica, si occupa di arte contemporanea e cinema. Collabora con diverse riviste di settore e, come curatore indipendente, con gallerie e spazi pubblici.
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