Gino de Dominicis non lasciò alcuna testimonianza visiva, né cataloghi né fotografie, della propria opera, realizzando con ciò stesso un autodafè iconoclasta.
E non per nulla, mi sia concesso il vezzo di citar me stesso, il precedente numero 3 di Kritika dedicato all’iconoclastia parlava anche di lui. Quando la giornalista e scrittrice Marina Valensise lo intervistò per il quotidiano Il Foglio, alla domanda sulle ragioni del nascondimento dietro a cataloghi e libri inesistenti de Dominicis rispose con quella perentorietà frammista a ironia che contraddistinse lo stile di una vita: «Si nascondono le mie opere che, giustamente, non vogliono essere fotografate». Di sé, diceva d’apprezzare in special modo l’arte antidiluviana – non la moderna, non la contemporanea. E puntualizzava, con la stessa lungimiranza del filosofo Louis Althusser che identificò il giovane Marx nel Marx del Capitale, come l’arte contemporanea, venendo dopo quella che la precede, fosse in realtà la più antica. Le cose più vecchie sono quelle che vengono dopo: noi siamo più vecchi di Michelangelo. La sua fissa fu l’immortalità e il giovane Paolo Rosa malato di sindrome di Down esposto alla Biennale veneziana del 1972 di fronte a un cubo invisibile, una palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo precedente al rimbalzo e una pietra in attesa di movimento fu l’oggettivazione dell’immortalità. Quell’uomo, così giovane vecchio, rappresentava l’immortalità raffigurando se stesso.
Gino de Dominicis, enfant prodige che fece la sua prima mostra a diciassette anni, non legò il proprio nome a un numero smisurato di esposizioni. Alcune le rifiutò anche, come Documenta a Kassel nel 1980 e la Biennale di Jean Clair nel 1995, un po’ come un Jean Paul Sartre che manda affanculo la commissione del Premio Nobel per la Letteratura. Giustamente. Perchè, affezionato com’era al proprio lavoro artistico al punto da confidare di non venderne neanche un pezzo, se fosse stato coinvolto in troppe mostre sarebbe diventato troppo famoso e avrebbe faticato non poco a riacquistare le sue stesse opere. Alieno all’iperproduzione espositiva e all’ipertrofia comunicativa ad essa connessa – pubblicità, libri, cataloghi –, Gino de Dominicis sentenziava con un apoftegma degno del miglior Nietzsche e prelevando a man bassa da Goya che «il sonno della ragione genera mostre».
Ma anche il più ineffabile fra gli autori lascia il segno di sè per i posteri. I quali, con acribia preterintenzionale e indefesso lavoro d’archivio e di concetto, ne tradiscono l’autodafè iconoclasta ostentandone il lascito e raggiungendo un risultato d’eccezionale valore storico. S’ha da esser grati a Italo Tomassoni, critico d’arte che ha portato a compimento il frutto di un lavoro più che decennale, se ora l’appassionato e lo studioso possono disporre di un formidabile speculum, per mezzo del quale guardare da vicino l’opera di Gino de Dominicis. Il volume edito da Skira rappresenta la prima ed unica opera d’archiviazione ragionata su de Dominicis – 632 opere censite – e consta fondamentalmente di quattro grandi sezioni:
1) carte a colori (52)
2) scritti e interviste
3) il catalogo ragionato vero e proprio, impostato in ordine cronologico dalle tempere su carta degli anni Sessanta agli ultimissimi lavori non datati degli anni Novanta e comprendente altresì inviti alle mostre e materiale documentale vario (libri, fotografie, annotazioni e paraphernalia dell’artista), compreso il fotogramma del film Vacanze intelligenti che de Dominicis fece ritirare dalla circolazione, dove un Alberto Sordi allibito guarda insieme alla moglie, la celeberrima sora Lella, l’opera Il tempo lo sbaglio lo spazio.
4) apparati: personali e collettive (dalla prima mostra personale presso la Galleria De Dominicis ad Ancona nel 1967 fino all’ultima collettiva al MAGA di Varese nel 2011) e bibliografia, ragionata anch’essa
Non so se la dipartita di Gino de Dominicis sia realmente avvenuta. Forse non è mai trapassato davvero, oppure riposa in un camposanto conosciuto solo a coloro che gli furono più vicini. Ma, come dice il poeta Fernando Pessoa, morire è solo non esser visto. Quindi, dal momento che ora lo possiamo vedere tutti, Gino de Dominicis ha raggiunto l’agognata immortalità.
Gino De Dominicis (Ancona, 1947 – Roma, 1998) fu pittore, scultore, filosofo e architetto
Italo Tomassoni (a cura di) – Gino De Dominicis. Catalogo ragionato – Skira – Milano – 2011 – 576 pp.
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