Come per un rigurgito del suo passato recente di clericato, il piccolo Umberto si mise a salmodiare e a offrire benedizioni qua e là ai pupazzi e ai balocchi della sua cameretta. Certamente non doveva far molto piacere al pupazzo He-Man che, acquattato tra un leone e varie grinfie, pareva scuotersi nel metacrilato, mezzo nascosto dal buio battente di quella cameraccia disordinata.
Umberto prese da parte il baldo androide e, con un afflusso di sangue bianco splendente di energia nelle vene, si mise a benedire e a giocar coi sacramenti.
Fin qui tutto bene, o quasi. In fondo in fondo niente di diverso dalle stranezze che devono giocare e saltellare nella camera di un bimbo, che è anche la sua mente.
Senonché, il nostro mastro giocattolaio in carne e ossa ebbe l’impressione che He-Man lo guardasse dritto dritto negli occhi con l’espressione di chi aspetta il momento in cui infilare un discorso.
Proprio in quel momento, però, un istante prima che dalla bocca del balocco uscisse favella, Umberto dovette uscire.
He-Man si ripromise, pieno di rabbia e frustrazione, che avrebbe tentato con tutte le forze di parlare, di comunicare almeno un suono o qualcosa del genere. Che avrebbe scosso quella corazza di moplen come peraltro già successo, seppur in altre corazze, ai vari Pinocchio o Petruska. Queste sono storie che tra i giocattoli corrono come saghe o leggende popolari. Ad ogni modo, gli toccava aspettare il ritorno di Umberto. Poteva però preparare una sorta di scaletta e magari raccogliere le forze per spaccare quel muro di plastica che era egli stesso medesimo. Si convinse di riuscire a parlare e gli parve di riuscire a emettere dei suoni.
Dopo un paio d’ore Umberto rientrò a casa, richiudendosi in camera.
Era il momento perfetto per He-Man. Si era esercitato per tutto quel paio d’ore di assenza di Umberto. Strinse i pugni e cercò di dire delle cose, ad esempio che non gli piaceva il rifacimento digitale di ET da parte di Spielberg o che i giocattoli non amano interagire tra di loro. Nessun concetto per cui trasecolare, beninteso, perché contava capire, con le prime cose che venivano in mente, se c’era la possibilità di parlare e farsi sentire.
A He-Man non sembrò però che Umberto sentisse alcunché e riprovò più volte a scuotere la corazza di plastica con dei sussulti pettorali. Sembrava uno scienziato di inizio Novecento mentre cerca di risvegliare una rana stecchita con impulsi elettrici. Soltanto che la rana era lui, e non c’era verso di fare udire un gracidio. Smise con le frasi e provò ad emettere semplici grida, poi rantoli, poi versi. Lui sentiva se stesso, ma non si poteva dire altrettanto al di fuori del moplen.
Fu allora che Umberto ripose He-Man tra il leone e una specie di ippogrifo e lasciò perdere i salmi e i riti vari che si era inventato sul momento.
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