Il piccolo canto

0 Posted by - May 20, 2016 - Altre scorie (Stefano Abbiati)

Mi trovavo in una casa in campagna e, ogni tanto, guardandomi le scarpe mi arrabbiavo perché guardavo quei piedi e capivo che non potevo volare.

Camminare, comunque, è un gran bell’accontentarsi. Anzi, è proprio una fortuna sfacciata.

Sulla via che porta al supermercato principale incontrai l’angelo che era molto noto in paese perché, al battere di un bastone dorato che porta con sé, faceva scaturire dalla terra un’upupa di terracotta. Soffiando dentro il becco dell’upupa, questo diventava reale e vivo, ma solo nel caso in cui il fiato del soffiatore fosse stato il fiato di un uomo giusto. Quell’angelo mi regalò uno di questi upupa che misi subito in giardino. Pensai sarebbe fuggito il prima possibile e lo riposi con diffidenza in un vaso di gerani. Probabilmente sarebbe finito nel sacco marrone dei rifiuti indifferenziati.

Soffiai diverse volte nel becco, quasi tutti i giorni e, quando ormai stavo per rinunciare, ecco lo sbatter d’ali e il pennacchio ritto in testa. In realtà, credo si fosse svegliato semplicemente per pietà nei miei confronti, oppure esclusivamente per l’insistenza delle mie preghiere. Sì, mi piaceva pregare non per implorare, ma per osservare qualche miracolo.

Era nel periodo che conobbi quell’angelo, cioè tra maggio e giugno, che sentivo al bordo della mia finestra un assiolo cantare il suo canto d’amore notturno. L’upupa fece amicizia con l’assiolo che era però un tipo di poche parole perché principalmente cantava dal tramonto all’alba. La terza notte l’upupa si avvicinò all’assiolo e gli chiese perché tutto quel cantare al cielo nudo e sconfinato. Non aveva, infatti, visto assioli femmine richiamate da quel canto.  Non è che l’assiolo facesse un gran parlare, a parte quel chiù chiù ogni tre secondi e per quasi sette ore filate.

Al quinto giorno, incalzato dalle domande dell’upupa, l’assiolo decise di rispondere e disse che a lui piaceva cantare e basta, che al cielo si canta e basta, senza ragioni particolari. “Certo,” aggiunse, “se arrivasse l’amore sarebbe meglio. Anche a me piace farmi dare del ‘batuffolino’. Comunque ti assicuro che tutto questo amore che spalmo come burro sugli alberi è una piccola cosa rispetto all’altro Amore che dorme inesploso in ogni animo e che è collegato dritto dritto all’Altissimo. I miracoli e i prodigi che gli vengono attribuiti nei canti dei miei simili, non sono più che buffe danze di breve durata, perché la vita scorre a piccoli fiumi, e poi c’è di nuovo la terra, e poi di nuovo altri fiumi. Io questo lo so, e proprio per questo, semplicemente, io canto, perché tutti i canti sono figli neonati del Grande Canto”.

L’upupa tornò verso di me con lo sguardo dell’estate. Mi chiese scusa perché si era svegliato alla vita soltanto per pietà, dunque con grande sufficienza. Era quella grande sufficienza ad avergli impedito di prender corpo. Gli dissi: “si figuri, non me ne ero nemmeno accorto”.

Come sempre, il giorno calava la notte e la notte calava il giorno, mentre l’assiolo continuava a cantare nelle ore stabilite dal sole e dalle stelle.

Quando dovetti andare via da quella casa, naturalmente non seppi più nulla dell’assiolo. Penso che una compagna se la sarà pur trovata. L’upupa non mi seguì nel viaggio e rimase a svolazzare in quel bosco.

Non potevo biasimarlo, visto che mi davano i nervi questi piedi che non sanno volare.

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