Iconoclasta: chi esercita una critica demolitrice e sovversiva nei confronti dei principi, delle idee, delle convenzioni che regolano la società.
…Le culture “iconofobe” distruggono le immagini, a volte sacre, a volte tutte le immagini, perché non le amano. Le temono1
Piuttosto che iniziare questa dissertazione dall’iconoclasta Platone, per cui l’immagine non rappresentava altro che la copia di una copia, ovvero il terzo passaggio, illusorio, di quello che aveva ideato la mente umana, mi butterò a bomba nel Novecento, anzi, nel Duemila, nella manifestazione più evidente del fatto che l’iconoclastia, in senso assoluto, non può esistere. I due aerei che si infilano nelle torri del World Trade Center ormai quasi dieci anni fa ne sono la prova lampante: strategia del terrore di frange estremiste, quello che si colpisce è il simbolo dell’intero mondo occidentale ma, invece di distruggerne la potenza, l’effetto è contrario: dall’implosione del cuore pulsante di Manhattan viene generata un’icona di dimensioni colossali, l’ultima possibilità di un atto performativo, l’opera d’arte “finale” come la descrive Jean Baudrillard al domani del disastro nel saggio Tower Inferno.
Un’immagine destinata a vagare nell’aria per una moltitudine (infinita?) di anni ancora, la cui potenza è stata moltiplicata esponenzialmente dalla riproduzione in loop attraverso i canali televisivi, la rete web, gli scatti fotografici.
La reiterazione del disastro, dell’atto più infame, soverchiatore e iconoclasta per eccellenza ha generato le bolle magiche che hanno messo a fuoco, da un lato, la potenza infinita della potenza ferita, dall’altro, la fisicizzazione di un concetto come il “terrore”, scatenando una guerra astratta contro un lemma.
La società delle immagini contro l’iconoclastia. Peccato che spesso, in entrambe le direzioni, si siano perse le tracce dell’una e dell’altra frangia, sepolte sotto la coltre incessante dei notiziari.
Tra le due torri aveva danzato clandestinamente, nel 1974, sospeso su un cavo metallico a più di quattrocento metri d’altezza l’equilibrista Philippe Petit, probabilmente un attendibile e possibile iconoclasta, destinato a fuggire le regole e a regalare immagini incredibili, quelle immagini che non appartengono al crollo delle Twin Towers, spettacolo dell’orrore mediato in diretta televisiva mondiale, ovvero filtrato dunque percepito come simulazione e intuito da Baudrillard come “definitivo” processo dell’arte. Happening perfetto.
Passando oltre, Paul Virilio nel saggio Città Panico riporta:
Victor Hugo scriveva, vent’anni prima del barone Haussmann:
Un giorno o l’altro si distruggerà Notre-Dame per ingrandire il sagrato o si spianerà Parigi per ingrandire la pianura dei Sablons’2
Non solo si distruggono icone perché le si temono; non solo si distruggono immagini per sabotarne il pensiero, ma si distruggono soprattutto le percezioni per sostituirne la portata. Accade in tutti gli stati dove vige un regime o dove si impone una politica dell’immagine.
Si spazza via la storia per la propaganda; si elimina la cultura per ingaggiare una battaglia ad armi impari con una massa popolare che è sempre destinata a perdere.
Viviamo in continuazione con lo spettro di un’iconoclastia che non solo rasenta la sostituzione (perché in Occidente non si parla mai di odio) delle immagini, ma che è reale volontà di sovvertimento delle forme della conoscenza, della cultura, delle idee a favore di uno spettacolo diffuso.
Il concetto di “spettacolo diffuso” probabilmente esce dalle orecchie degli addetti ai lavori, di chi si interessa di alcune questioni, di chi osserva l’andamento di questo contemporaneo che è stato definito fluido, liquido ma che forse, in realtà, è più solido che mai nella pratica della surrogazione e nell’annientamento delle coscienze.
L’iconoclastia di regime punta, ovviamente, alla proliferazione di immagini facenti capo a una classicità morale e famigliare: madri impegnate, uomini sportivi e bambini al Kinderheim. L’iconoclastia delle frange dissidenti, diverse o impegnate si circonda di altri valori che passano per mani bianche che stringono mani di colore, per bambini raggruppati in base al criterio “uno per ogni etnia” o attraverso affettuosità gay.
Un po’ di sana iconoclastia, ma quale? Non vi è speranza di incontrare l’iconoclasta. Non esiste più o forse, addirittura, non è possibile la sua esistenza: in senso lato questo fenomeno viene ben espresso da Georges Didi-Huberman che nel saggio Immagini malgrado tutto, a partire dall’indagine di quattro brandelli di pellicola fotografica scattati dall’interno di una baracca di Auschwitz, sviluppa un’affascinante teoria sul potere dell’immagine, unica arma e unico modo per le vittime di “contrastare” in presa diretta, con l’ausilio di un documento di conoscenza, il più grande e odioso piano iconoclasta-etnico che l’umanità ricordi.
Nulla di artistico nelle quattro immagini superstiti, nulla di spirituale ma il documentario mostruoso, tagliente, senza speranza, esautorato di ogni estetica e di ogni parola che racconta silenziosamente il massacro, la macelleria quotidiana dell’identità. La spersonalizzazione.
Poco importa se l’immagine non sia sufficiente a documentare interamente la realtà dell’orrore, ma spesso basta davvero un brandello; il resto è solamente ripetizione, reiterazione pornografica: ecco il destino “visivo” delle Twin Towers quasi sessant’anni dopo l’olocausto.
Come dire: la realtà basta a sé stessa, e i campi di sterminio nazisti custodiranno per sempre, nonostante tutto, il loro segreto, la loro immagine “interna” che malgrado le parole scritte, le immagini documentate e rubate potranno restare impresse solo tra chi ha vissuto in prima persona l’atrocità del ghetto (o dell’implosione del simbolo dell’Occidente).
È invece ancora Baudrillard, in America ad occuparsi dell’osceno e degli ologrammi a esso correlati, alla tensione di immagini che identificano l’atteggiamento di interi gruppi sociali persi nell’allucinazione della società dei consumi, nel respiro corto di un sabato sera di provincia passato a far caroselli in auto la cui antecedente azione è stata passare la mattinata, nel sole e nel silenzio estivo, a lucidare la carrozzeria per poterla mettere in mostra.
Il sociologo francese tratta con estrema acutezza l’ignavia dell’uomo contemporaneo in preda all’apparizione di un orgasmo post-post moderno, sopraffatto dai Miti d’Oggi, per citare il vecchio e quanto mai attuale saggio di Roland Barthes.
J.G. Ballard, che notoriamente scrivendo riusciva a giocare con il fuoco, già nel 1973 con Crash, preconizzò un appagamento sessuale derivato dalla violenza fisica delle immagini, per poi indagarne le conseguenze in altri caustici scritti superato il decennio della filosofia edonistica. La carica di assoggettamento alle immagini dello spettacolo appare ancora più virulenta di fronte alla definizione della pratica del body building come attività erotica:
Masturbazione asessuata, nella quale l’intera muscolatura del corpo simula una porzione di tessuto erettile. Ma l’orgasmo sembra rimandato all’infinito
Probabilmente, essere iconoclasti appare oggi come l’adeguamento a una serie di codici. Dopo l’abbuffata stagnano una serie di rappresentazioni di nulla, concettualmente vuote ma pur sempre immagini.
Probabilmente l’iconoclastia è il nuovo reverse della società dello spettacolo.
Dopo l’orgia, come ipotizzava Jean Baudrillard ne La trasparenza del male, resterà ben poco di visibile: primo perché ci si trova in una fase di esposizione completa, come guardare il pieno sole in un pomeriggio estivo (anche in questo caso però si formano macchie, immagini nebulose sulla retina che perseguitano la percezione visiva per qualche minuto per poi dissolversi), per cui ci si trova a dover ricostruire a partire da un accumulo e non da una tabula rasa che quantomeno determinava un’assenza, la disintegrazione di codici naturalizzati.
Inoltre non si può tralasciare un’iconoclastia sociale, doppiamente subdola, in grado di essere ancora più potente delle immagini “macchiate” che si propone di occultare:
Il Negro, l’handicappato, il cieco e la prostituta diventano colour people, disabled, non vedente e sex-worker: essi devono essere riciclati come denaro sporco. Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere4
In un certo qual modo Thomas Ruff con i suoi scatti sfuocati su scene pornografiche mima un po’ questa situazione: l’osceno viene rivestito di una pellicola opaca, il pornografico è occultato ma la risultante potrebbe essere l’ingresso di un sintomo voyeuristico doppiamente potente nell’immagine: tutto è perfettamente riconoscibile macroscopicamente, ma la percezione si fa scopofilia: in entrambi i casi, dichiaratamente o subdolamente l’immagine ricomposta o distrutta resta sul limite, protrae il suo essere perturbante.
Come specificato poco sopra, però, si tratta di pratiche che, seppur mai sopite, sono state sepolte da quintali di bulimia, magma difficilmente controllabile che, nonostante attualmente si provi ad arginare, resta ben presente nelle zone invase. L’arte che mima un’iconoclastia con il vuoto pneumatico di forme e con la “noncuranza” (perché curare presagisce un’attenzione verso le “immagini” che l’iconoclasta “curatore contemporaneo” deve, a torto, dimenticare) non può nulla contro lo spettacolo diffuso perché figlia della stessa allucinazione che riempie; un finto svuotamento destinato a non togliere nulla ma, nel migliore dei casi, ad illudere.
L’iconoclastia annulla se stessa con il suo stesso spirito: nemmeno il De Immundo di Jean Clair riesce a convincere nella sua polemica contro le immagini “aberranti” che mimano thanatos nella sua veste più volgare, perché per essere davvero iconoclasti non solo probabilmente bisogna distruggere le immagini, ma è necessario anche dimenticarle. Abbiamo aperto con il disastro più trasmesso della storia imputato al regime islamico talebano: poco più di trent’anni fa, dagli stessi territori in seguito occupati dell’Afganistan e più precisamente della valle di Bamiyan (ovvero quella zona a circa trecento chilometri da Kabul dove nel marzo del 2001 sono stati fatti saltare i due immensi Buddha scavati nella roccia) Alighiero Boetti confessava:
In tutti i tempi e i luoghi, l’essenziale dell’arte è un’immagine frontale: foto, ex voto, calendario o bassorilievo gigantesco, opera eterna e fragile, comunque un’icona eletta6
[1] Maria Bettetini, Contro le Immagini, Le Radici dell’Iconoclastia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. V [2] Victor Hugo, Cose Viste, tr. It. Editori Riuniti, Roma 1985 in Paul Virilio, Città Panico, Cortina, Milano 2004 [3] Progetto per un glossarietto del XX secolo, Zone, Nov. 1992 in J.G. Ballard, Shake, Milano 1994 [4] Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano 1996 [5] Pier Paolo Pasolini, Contro i Capelli lunghi, in Scritti Corsari, Garzanti, Milano 1975 [6] Annemarie Sauzeau, Shaman Showman Alighiero e Boetti, Sossella, Roma 2006
Per approfondire il tema, oltre ai volumi citati nelle note si consiglia:
Jean Baudrillard, America, SE, Milano 1998
Zygmunt Bauman, Modernità Liquida, Laterza, Roma-Bari 2002
Georges Didi Hubermann, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2004
Tiqqun, Elementi per una Teoria della Jeune Fille, Bollati Boringhieri, Torino 2003
Tiqqun, Teoria del Bloom, Bollati Boringhieri, Torino 2004
Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, Cortina, Milano 2007
Matteo Bergamini, FAC FronteArteContemporanea, art critic, indipendent curator, Exibart, Con-fine. E Kritika, of course….
No comments