ICONOCLASTIA ALLA ROVESCIA PER LIBERARE L’IMMAGINE DAL CRITICO D’ARTE

0 Posted by - August 14, 2010 - Approfondimenti

Dopo duemilacinquecento anni in cui la parola è al centro della cultura euroasiatica, esposta come l’ostia nelle antiche processioni, col seguito blando dei suoi profeti e sacerdoti, si dice l’Occidente[1], vive una nuova epoca dell’immagine; tempo nuovo che segue il millenario studio del verbo e delle scritture non soltanto religiose ma sociali, scientifiche, culturali, dove ancora le fonti e le auctoritas primeggiano sullo scrupolo di veridicità. Nel conclave della parola scritta non conta l’onestà della ricerca ma la giustezza degli obiettivi, la loro adesione al sentire dominante e al suo ordine, poiché la scrittura lascia una scia eterna e rende solido il potere.

Per converso l’immagine non può essere falsata, o almeno non lo poteva.

Omero e Socrate scelsero di parlare per immagini, di salvaguardare la forza della visione dalla traduzione scritta, e così anche i Vangeli trascrissero a posteriori il pensiero icastico di Gesù – che non differì dai profeti biblici nella parola ma nell’azione, quindi nell’immagine della sua azione; a ben vedere tutte le grandi religioni si dotarono di libri a cominciare dai primi secoli dopo Cristo: libro e scrittura acquistarono così una dignità senza precedenti.

Inni vedici e testi sacri degli zarathustriani si erano conservati per secoli nella trasmissione orale[2], la loro ordinazione scritta servì a regimentare i precetti e omologarli: tutti i bibla risposero all’esigenza di convalidare con la scrittura le immagini donate alla fede dai profeti, l’assoluto affanno di organizzare un canone unico per la comunità dei fedeli/discepoli.

Platone, e mi pare lo abbia rilevato ottimamente il lavoro di Eric Alfred Havelock, accelerò la sostituzione fra immagine e scrittura; non a caso nell’opera dei Dialoghi rimane il sapore di una sapienza residua offerta per lampi iconici, ma priva della forza che dovevano avere i racconti di Omero, ossia una vera e propria schola vitae per le giovani generazioni chiamate a confrontarsi con gli eroi e gli dei, e con un preciso schema etico da mantenere nella vita quotidiana all’interno della comunità cittadina, introiettando immagini esemplari, simboli e segni.

Anche Krishna dovette essere un insegnante di immagini e parabole, ma non di scrittura, tanto che i sadhu ancora oggi si ritirano nel piacere della meditazione e della visione, non nello studio delle scritture praticato invece dai monaci.

Visione che è alla base della cultura precolombiana ancorché celata, come di quella africana, ugualmente resiste nelle sacche di antiche civiltà del nord, incorrotte nonostante le fatiche dell’Occidente per cambiarle. In Kamchatka, per esempio, benché nascosto resta inalterato l’impiego del fungo muchamor all’interno della medicina magica popolare e gli ampi studi nella seconda metà del Novecento di etnbotanica insegnano senza possibilità di smentita che tutta la cultura precristianizzata visse il rapporto con l’invisibile attraverso il rituale sciamanico basato sulla ricerca della visione[3].

Quando dico che le immagini sono la verità mi riferisco a questo contesto, non certo al nostro tempo o alla nostra società, in cui la falsificazione è un elemento tanto reale da essere in alcuni momenti più forte della realtà stessa.

Che senso ha dunque, nel ritorno dell’immagine, parlare di iconoclastia?

Nessuno, tanto più che il problema mi pare risolto nelle istanze della postmodernità, che volenti o nolenti sono la vera grande innovazione del secondo Novecento rispetto alle avanguardie storiche. Da lì mi pare che non se ne esca, ed è tanto difficile spaludare da questi fanghi quanto più il secolo delle immagini trascina con sé la rigidità delle parole, usate a nota non affatto marginale per spiegare quello che dovrebbe avere di per se stesso la capacità dialogica di raggiungere l’utente finale (nessuno sciamano si piccherebbe di spiegare con l’alfabeto della realtà quello che ha visto nel viaggio ultraterreno, appunto nella visione, l’immagine vera).

Nella filiera dell’arte l’utente è il visitatore che si pone in apertura davanti all’opera d’arte, al suo senso. Nel corso del Novecento sempre più spesso l’osservatore è stato chiamato a partecipare dell’opera, anzi, è stato chiamato a partecipare dell’immagine dell’opera d’arte, traslando quello che è il Principio di indeterminazione di Heisemberg, per cui l’osservatore cambia l’oggetto della sua osservazione, qualunque osservatore e qualunque oggetto siano.

L’iconoclastia non è più una soluzione praticabile filosoficamente, oggi; lo fu nel VIII secolo o nella ripresa protestante, ma adesso mancherebbe non di una riflessione teologica quanto di una funzionalità filosofica e pragmatica, forse resiste uno stimolo politico. Noi siamo sommersi dalle immagini, e sono per lo più immagini nude perché falsificabili, perché non vere, in opposizione a quelle degli sciamani, quelle dei canti eroici o delle tradizioni orali. E lo aveva fin troppo capito Joseph Beuys.

Da noi l’immagine serve per convincere, non per rivelare, sono estetiche/esterne, non etiche/intime. Le immagini vere non sono mai puramente estetiche, ed è su questa base che leggo l’ampio lavoro di Ananda Coomaraswamy, uno studioso poco conosciuto a confronto dei soliti nomi triti e ritriti citati nei soliti testi dei soliti critici: se l’arte, come la società, coniuga le immagini soltanto all’estetica risulta difficile poter individuare – nel loro flusso continuo – quella che effettivamente rappresenta qualcosa.

Un punto non secondario sarebbe poi rilevare chi deve promuovere e concludere la lotta iconoclasta: restringendo il campo al solo settore delle arti visive non competerà sicuramente agli artisti che le immagini contribuiscono a produrle, non i poeti, non i santi. Il popolo è disinteressato al problema almeno fintanto non gli impedirà di mangiare, dormire e cacare in pace.

Restano i critici. Ecco appunto, i critici, quale il loro ruolo nella iconoclastia contemporanea? Sicuramente quello di inutile sovrastruttura che non praticherà mai alcuna cesura con l’immagine: non si troveranno mai iconoclasti fra costoro, vorrebbe dire smettere di succhiare il sangue dall’abbondante collo dell’arte. Se l’immagine porta in sé la verità è comunicata e comunicabile al pubblico, se invece è deteriorata o puramente estetica ha necessità di un appoggio critico per raggiungere i suoi destinatari meno colti.

Non credo di dover qui entrare nel merito di cosa sia un’opera d’arte oggi, perché questo lavoro immane lo ha già condotto il filosofo americano Arthur Danto partendo dalle Brillo Box di Andy Warhol. Resto al più banale livello della critica: criticare significa scegliere, è un passaggio su cui insisto spesso perché mi pare che tutto si faccia fra i critici tranne che scegliere, e le mostre collettive lo dimostrano. Se iconoclasmo dev’essere, che sia delle sovrastrutture dell’immagine e non dell’immagine tout court. Togliere le sovrastrutture significa eliminare tutto quello che ne soffoca la verità, dunque il suo commento.

Il lavoro del critico o del curatore, per esempio, dovrebbe essere quello di mettere in evidenza l’oggetto d’arte e non se stesso, perché l’immagine d’arte si presti meglio alla lettura, perché l’opera sia posta in condizione di comunicare con tutta la sua verità, con la sua forza come con tutta la sua debolezza. Aggiungere alla personalità dell’opera quella del critico o dell’allestitore-architetto spesso altera la verità dell’immagine, ne costruisce un riflesso falsato.

L’unica vera iconoclastia dovrebbe portare alla riduzione dei termini eterologi dell’opera d’arte: devono sparire gli autori dell’immagine, devono sparire gli elementi allestitivi che espongono l’immagine d’arte, deve sparire il critico che non può sopraffare ma accompagnare l’azione dialogica dell’immagine, rendendola più chiara e limpida possibile, come facevano gli aedi antichi ripetendo le gesta degli eroi affinché ciascuno potesse diventare eroe, cogliere il senso delle storie epiche. Il critico sceglie le immagini, ha questo ruolo fondamentale. Come curatore di mostre le espone, e quindi deve essere più discreto possibile.

Gli anni Ottanta sono stati l’acme di una iconobulia egopatica del critico che è diventato protagonista almeno come – se non di più – dell’artista. Negli anni Novanta questo sistema ha virato verso una variante pop e più casalinga, andando in crisi col nuovo secolo. L’iconoclastia del 2000 sarà forse alla rovescia, servirà a liberare le immagine dalle loro sovrastrutture, sarà l’immagine a liberarsi del suo usurpatore. E se dovessimo scoprire che si può vivere senza opere scritte, come prima di Platone, tanto meglio, risparmieremo finalmente in cataloghi, in tanti cataloghi inutili.

[1]Per Occidente qui intendo non il comprensorio geografico ma ideologico in cui la tecnocrazia domina incontrovertibilmente.

[2]In tal senso basta citare gli studi di Franz Altheim, Mircea Eliade, Ioan Petru Culianu, tre eminenti studiosi di storia delle religioni.

[3] Qui è utile richiamare gli studi di Gordon Watson, Richard Evans Schultez, e per certi versi il grande e laborioso saggio di John Allegro sul fungo sacro e la croce, benché certe forzature siano state negli anni ridimensionate.

Flavio Arensi collabora con enti pubblici e musei per mostre monografiche e collettive. Dal 2003 dirige gli spazi di Legnano (SALe) e attualmente è il consigliere per l’arte contemporanea del Vittoriale degli Italiani. Giornalista dal 1997, tiene una rubrica fissa su Arte e ha pubblicato con diverse case editrici, fra cui Skira e Allemandi.

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