Articolo pubblicato su il GiornaleOFF
“What you see IS NOT what you see”. Dice di non voler polemizzare a cazzo con Frank Stella , ma in fin del conto ha ragione, ce lo diceva anche la nonna che c’è differenza fra essere e apparire.
Questo è vero soprattutto in pittura, dove capiamo al volo per quale ragione Immanuel Kant insistesse così tanto sul fatto che la tal cosa che stiamo guardando non è più la stessa quando smettiamo di guardarla.
L’avevamo visto tre anni fa da Francesca Minini con una mostra che fin dal titolo ci aveva fatto pensare a Platone (chora. In greco: il ricettacolo delle idee e, nel senso immaginifico del Nostro, il terreno d’incontro con la pittura ) e ora, nella stessa galleria milanese, Giulio Frigo torna con la personale 360 780nm.
Come Umberto Eco coi suoi metatesti, Giulio Frigo strizza l’occhio a quei pochi che sanno: 360 780nm è infatti l’intervallo del visibile, determinabile con particolari misuratori detti spettrofotometri.
Nella fattispecie, qui il visibile è: pittura e colore. Ma non pensiate che, da vedere, ci siano solo quadri appesi alle pareti: 360 780nm di Giulio Frigo è un’esperienza performativa in cui, almeno per una volta, il protagonista non è l’artista ma il medium. E, attenzione, il suddetto medium NON è il quadro, ma il mezzo che ce lo rende visibile: la luce.
Se nella sua mostra precedente Giulio Frigo voleva farci versare un obolo per accedere alla visione di opere emergenti da un lago di tenebra, ora è “sufficiente” che pratichiamo un azzeramento totale delle nostre aspettative sul visibile: varcata la soglia di uno spazio espositivo trasmutato in “beniana” (aggettivazione che desumo impudentemente da Carmelo Bene) macchina attoriale scenica con tendaggi e pareti nerissime e luci studiatissime, ci si apre dinanzi agli occhi l’universo dell’ineffabile.
Come diceva Wittgenstein, ciò che non si può dire si può solo mostrare e Giulio Frigo, conscio dei limiti del linguaggio per esprimere il colore e la pittura, ce li mostra nella loro apparenza superficiale nuda e cruda: la luce che bagna a intermittenza e in maniera cangiante porzioni dei quadri serve a questo, ci di/mostra che essi non sono come li percepiamo. Che è un altro modo per dire che la cosa, indipendentemente dalle nostre limitate facoltà conoscitive, non la vedremo mai come essa è in sé e per sé.
Nulla di astratto, non temiate di vedere monocromi o quadri fatti di linee: Giulio Frigo ci piace perché è un reazionario che difende il figurativo. Solo che per lui la pittura è l’oggettivazione inadeguata di un’idea, un vestito che le mettiamo addosso per poterla vedere: per questo i suoi quadri non sono mai pezzi facili.
Per rendere l’idea – bisticcio di parole da me fortemente voluto -, l’artista cita l’esempio di una camera anecoica, il luogo più silenzioso al mondo da cui è bandita ogni percezione sensibile che non sia il suono del nostro stesso respirare: ecco, visitare 360 780nm di Giulio Frigo è proprio come accedere a questa stanza, da cui si palesa l’intima essenza della pittura, solo e soltanto quella, che sopravviene, sulle pareti nerissime di Francesca Minini, come per autopoiesi.
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