GIANLUCA BRANDO | INTERVIEW

2 Posted by - May 10, 2016 - Interviste, Kritika segnala

Gianluca Brando è un giovane artista italiano che cerca di dare una nuova lettura alla scultura. I suoi calchi in gesso vogliono permettere anche al materiale di scarto di avere un proprio valore artistico e semantico, accentuato dai colori essenziali e dalle forme semplici. È finalista al Concorso di Scultura Antonio Canova, edizioni 2014 e 2015 e al Premio Francesco Fabbri 2015 ; a maggio lo vedremo a Milano tra i protagonisti della quarta edizione del Premio Cramum, all’interno della mostra VOX CLAMANDI e a novembre svolgerà una bi-personale a Taipei.
 
 
Quando si pensa alla scultura viene in mente una figura levigata e finemente lavorata, un’ elaborazione tale che fa dimenticare il materiale con cui è composta l’opera: nei tuoi lavori invece sembra esserci la volontà di mostrare la materia per quello che è, la materialità pura e nuda, senza fronzoli e l’intenzione è quella di non voler scartare nulla, anzi di esaltare anche la gestualità umana sulla materia, come in Look elsewhere 

Le tue osservazioni sulla materia e la sua possibile “dimenticanza” mi fanno ricordare le invettive che uno scultore, spesso frainteso, come Medardo Rosso lanciava alla statuaria classica (ma anche al suo contemporaneo Rodin), accusata di troppo oggettivismo, come diceva lui, proprio perché legata a un’idea statica della materia, separata dall’ambiente e dallo spazio-luce. E invece lui voleva farla dimenticare la materia!  Nel mio lavoro, utilizzando sostanzialmente due materiali come l’argilla e il gesso, entrambi molto duttili, non mi servo quasi di nessuno strumento esterno al mio corpo. Uso soprattutto le mani. Look eslewhere è proprio il calco delle ditate prodotte sul panetto di creta, nel gesto di raccolta di quella materia che poi darà forma a qualcos’altro. Lavorando capita che inaspettatamente il mio sguardo si sposti altrove, a quelle produzioni involontarie o a zone considerate marginali, passaggi tra uno stato e l’altro che all’improvviso, con sorpresa, si presentano alla visione come parte di un processo ampio in cui potenzialmente avviene tutto. In quei momenti agisco quasi come un testimone esterno di un avvenimento e la tecnica del calco mi serve proprio come medium per registrare e tenere insieme sia ciò che volontariamente mi ero prefissato di realizzare, sia lo scarto che questa azione porta con sé.

Poniamo che ci sia un cantiere edile aperto, nel quale ci siano diversi scarti dello stesso materiale delle tue opere. Arriva uno degli operai e prende i calcinacci insieme alla tua opera: come gli spiegheresti che la tua è arte?

Se un lavoro va a finire in un cantiere diventa parte di quel cantiere: le opere d’arte vivono nel e per il contesto che le riconosce e fruisce come tali. Affermare che una cosa, un oggetto, è un’opera d’arte, rientra in un ragionamento intellettuale, ha a che fare con la cultura. Ma il fatto che in occasione di allestimenti gli addetti alla manutenzione scambino oggetti d’arte per oggetti di nessun interesse, quindi degni di finire nell’immondizia, è ancora ricorrente. Nella storia dell’arte episodi simili hanno un precedente in alcuni ready made di Duchamp, finiti anch’essi male, come la famosa “porta” pitturata per sbaglio alla Biennale di Venezia. E tutto questo è molto ironico e paradossale. Un segno dei nostri tempi.

Quanto ha influito e influisce la tua terra natale e il tuo soggiorno a Taipei sui tuoi lavori? Si può trovare un certo grado di territorialità o di senso di appartenenza ad un luogo?

Durante il periodo in cui ho vissuto a Taipei mi ha colpito molto lo stato febbrile con cui i taiwanesi affrontano le attività del vivere quotidiano. Dal lavoro allo studio, ogni attività è compiuta con la massima intensità, tanto che anche i momenti dedicati al riposo, per esempio la domenica, non possono essere intesi come pause di puro relax, ma sono sempre finalizzati a qualche occupazione. Credo che questo modo di vivere abbia influito in vari modi anche nel mio lavoro. Inoltre, ciò che agli occhi di un europeo può sembrare sconcertante dal punto di vista del paesaggio urbano, alla fine rivela un carattere di vivacità e dinamismo: una continua trasformazione. In Italia invece tutto è un po’ più statico e imbalsamato. Il mio paese d’origine, Maratea, in Basilicata, conserva ancora una natura intatta. La roccia alta e possente che forma una costa molto frastagliata e la linea orizzontale del mare che le si oppone, in effetti, è già una scultura.

La tua ricerca artistica indaga l’ambivalenza e la complementarità: per ogni azione che noi compiamo se ne genera un’altra, che comporta una scelta, uno scarto. Nel tuo lavoro c’è una sorta di volontà kierkegaardiana di non voler scegliere, o meglio di scegliere di non scegliere nessuna delle due metà, ma di prenderle entrambe. Ce ne parli?

Tutto è cominciato da una rilettura dei processi tradizionali che portano alla realizzazione della scultura, da un sentire i significati che esprimevano in sé questi procedimenti. In un primo momento realizzavo delle forme in creta e, attraverso la classica tecnica della formatura, detta a forma perduta, le riproducevo in gesso. In questo processo c’è un passaggio che viene cancellato perché per generare il positivo bisogna distruggere la contro-forma, il negativo, che lo contiene e perciò, una volta ottenuto il positivo, mi proponevo di recuperare quella forma in negativo che era stata annullata, ritornando a calcare nuovamente il positivo ottenuto con la creta. Quindi presentavo le due parti una accanto all’altra, installandole sui due piani opposti dello spazio, quello orizzontale e quello verticale, come in Conca, o in modo simile nella serie Verso Recto. Successivamente, in un lavoro come Continuum, questo processo ciclico che passa per il fare, distruggere e recuperare ciò che viene distrutto, scoppia! Il calco viene ripetuto per diverse volte sulla stessa forma per verificarne il punto limite dove la trasformazione cede il passo all’annullamento. Infatti, con questo lavoro il calco, ripetuto in un continuum, diventa il mezzo di trasformazione, non di riproduzione, che è il motivo stesso per cui questa tecnica è stata da sempre utilizzata nella scultura. Negli ultimi lavori la materia si articola in stretta relazione allo spazio, si genera proprio a partire dalle caratteristiche specifiche dello spazio in cui lavoro, parete e pavimento le fanno da sostegno; il risultato che ottengo registra i punti di contatto tra la materia e il vuoto, lo spazio che rende possibile questo gesto. Tutto però è capovolto: c’è sempre una relazione tra due polarità opposte che convivono in una forma unica.

Nell’opera Nicchia, un ruolo importante è dato al pubblico che cammina sullo strato di gesso e ne determina la spaccatura: quanto è importante per te lo spettatore? 

Nicchia è un lavoro site specific che ho realizzato in una delle stanza dello studio di Taipei, in occasione di un open studio con l’artista taiwanese Hsing-Chun Shih. Il luogo in sé, lo studio, è importante perché l’idea di far camminare lo spettatore sul sottile strato di gesso, a sua volta un calco del pavimento della stanza, ha a che fare con un’idea di violazione di un equilibrio; una violazione necessaria perché l’opera deve vivere nel mondo, ma senza intendere la rottura, la distruzione come un elemento negativo, anche se credo che le persone che ci hanno camminato sopra si saranno sentite, anche solo per un attimo, un po’ a disagio per l’effetto che stavano determinando. In più, l’atto del camminare sul lavoro era finalizzato anche a raggiungere una finestra per vedere il resto dello studio, o per avere una visione completa dell’installazione. In questo lavoro lo spettatore lascia materialmente il proprio segno, collabora alla riuscita del lavoro perché la spaccatura era l’effetto che volevo realizzare. Qui l’azione dello spettatore è registrata e visibile, ma credo che lo sguardo di ognuno costituisca di per sé una trasformazione. Quindi lo spettatore è fondamentale, ma il primo spettatore del mio lavoro sono anche io stesso.

Le tue opere rappresentano una tua ricerca personale o insieme ad essa hanno un significato intrinseco? Che messaggio vuoi trasmettere a coloro che osservano una tua scultura? 

La ricerca artistica è anche una ricerca personale. In ogni caso lavorando ogni giorno si diventa ciò che si fa e viceversa, quello che realizziamo esprime il nostro essere, ma con il dovuto distacco… Mi viene in mente una frase di Pollock che diceva “Ogni buon artista dipinge ciò che è”, ma lui era molto influenzato da Freud! Quello che più mi interessa trasmettere è un interrogativo sulla compresenza, sul limite e l’ambivalenza: il rapporto tra noi – lo spazio e la materia – e il mondo. Mi piace molto un frammento di Eraclito che dice: “Sopra quelli che avanzano il passo entro i medesimi fiumi, diverse e sempre diverse scorrono le acque”.

Quali sono i tuoi prossimi progetti? A cosa stai lavorando ora?

Sto lavorando a diverse cose…Ho in mente un progetto che coinvolga in maniera completa lo spazio del mio studio, lavorando in site specific, determinando un’inversione totale di questo spazio e realizzando un ampliamento in scala di ciò che ogni volta si verifica mentre lavoro: un ripetuto capovolgimento.
 
 
Gianluca Brando è nato a Maratea (Pz) nel 1990. Vive e lavora tra Taipei, Taiwan e l’Italia. Ha conseguito il Diploma in Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e nel 2014 il Diploma specialistico in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Finalista al Concorso di Scultura Antonio Canova, edizioni 2014 e 2015 e al Premio Francesco Fabbri nel 2015, dopo un periodo di residenza a Taipei,Taiwan, attualmente vive e lavora in Italia.
 

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