GIACOMO VANETTI – DON’T BE LIGHT

0 Posted by - January 7, 2013 - Interviste

Giacomo Vanetti e il suo soggetto, proprietario assente della corporeità. Anche noi siamo avvoltoi curiosi di qualche bocconcino delle sue fotografie.

E alla distorsione anche noi ci crediamo.

Caro Giacomo, hai presente le fotografie in movimento di Edward Muybridge? Quelle immagini influenzarono parecchio le anatomie di un genio della pittura, Francis Bacon: qual è il valore della corporeità nella tua produzione? E perché i tuoi soggetti – sempre femminili, per altro – sono i proprietari assenti di tale corporeità?

Conosco sia Muybridge che Bacon. Ho imparato da entrambi o, forse, da nessuno dei due. Mi sento però più vicino alla ricerca fotografica futurista di Anton Giulio Bragaglia che a quella di Muybridge. Per la fotografia futurista, diversamente dalla pittura dove si era soliti scomporre il movimento in singoli istanti ( più simile alla ricerca del sopracitato Muybridge), il movimento era da ricercare nella traccia lasciata dal corpo, come se fosse possibile rappresentare un’aura che raccontasse lo sviluppo del momento lasciando immaginare la presenza di un prima e di un dopo. È attraverso questa traccia, questo indice di movimento, che provo a raccontare la mia corporeità. Lo studio del movimento permise a Bacon, per primo forse, di creare una nuova e differente rappresentazione dell’umanità immersa in un’atmosfera di malessere, angoscia, desolazione e inquietudine e di renderci così curiosi avvoltoi della nostra sofferenza. Questo è un altro aspetto che mi piace e che cerco di raccontare col mio lavoro. Anche la mia corporeità è allo stesso tempo soggettiva e universale. E’ distorta, nascosta, frantumata, ripetuta e spesso identica a se stessa. Sono i miei limiti e le mie paure. Il terrore di quel cambiamento desiderato a tal punto da divenire un incubo, un ossessione dalla quale fuggire. Anche la scelta del soggetto femminile, come dici tu proprietario assente di corporeità, serve a rappresentare meglio la situazione. Figure femminili assenti perché simboliche. Perché, a volte, troppo presenti o del tutto mancanti. Perché spaventevoli, oniriche. Il rapporto con gli altri e specialmente con l’altro sesso è dominato da un dualismo tra istintuale e razionale che crea confusione, incertezza, ombre e distorsioni da me rappresentate in fotografia. Forse per liberarmene.

Le tue fotografie sono spesso il risultato finale di un procedimento piuttosto laborioso che consiste nella progressiva distorsione dell’immagine: qual è il secretum della bellezza “graffiata”?

Le mie fotografie sono il risultato di un processo laborioso, perché io stesso sono un processo molto laborioso. Come ti dissi in passato la distorsione dell’immagine mi è utile per nascondere la bellezza della stessa, per creare una distanza tra opera e osservatore in modo tale che solo chi abbia voglia e capacità di approfondire possa cogliere il messaggio. Ma non è solo quello. ll graffio è dolore, lo sfocato indecisione, il buio paura e la ripetizione monotonia. Tutti aspetti della mia persona che si manifestano nella mia produzione artistica e dai quali non riesco a prescindere.

Due parole sull’apporto visuale del mezzo analogico che il digitale non ti dà

Non so se sia giusto creare questa dualità tra analogico e digitale. Sono nato analogico e, al momento, preferisco il tipo di approccio che si aveva quando la tecnologia digitale era ancora solo fantascienza. Non sto dicendo che io non mi avvalga di strumenti e supporti digitali per realizzare le mie immagini, ma è il modo in cui ne fruisco che resta principalmente analogico. Mi piace l’impossibilità di tornare indietro. La possibilità di umanizzare il medium lavorando sulle sue caratteristiche valorizzandone pregi e difetti. Mi piace avere limiti entro cui muovermi, limiti che con il digitale vedo troppo lontani e preferisco il lavoro di pre-produzione (la scelta del mezzo adeguato) alla post-produzione davanti ad un monitor.

Qual é il valore aggiunto delle “sporcature”(come la candeggina nella tua ultima serie Don’t be light), cioè di quegli elementi di disturbo e di quelle distorsioni che applichi o fai accadere spontaneamente in fase di lavorazione sulle tue foto?

Il valore aggiunto in termini commerciali? Battute a parte sono le stesse sporcature il valore aggiunto. Sono la mia poetica. Riprendono tutto quello detto in precedenza e servono a rappresentare i difetti miei e dell’umanità, rendendoci e rendendosi, per me, più attraenti. Mi piace pensare che le fotografie – e in realtà tecnicamente è così – abbiano una loro vita, logicamente influenzata dal mio intervento, che si evolve autonoma nel tempo e nello spazio e che spesso le “sporcature” come dici tu, ne influenzino lo sviluppo. Da qui la scelta di utilizzare prodotti come candeggina, pellicole e carte scadute, materiali difettosi (come me) e così via; prodotti sui quali, a parte il diritto di scelta esercitato in principio, non ho più nessun potere una volta realizzate.

Produzione seriale o anche singola?

Non posso fare questa distinzione. Sono principalmente per una serialità singola, se così si può definire. La serialità mi è utile a rappresentare meglio quanto detto in precedenza, come per il discorso delle “sporcature”. Mi piace lavorare sulle differenze e sulle similitudini, quindi difficilmente un lavoro si può esaurire in un singolo esemplare, a meno che non riesca nella sua unicità, a rappresentare coerentemente e correttamente il mio pensiero.

Scatti anche a colori (ad esempio la serie In punta di piedi), in generale prediligi il bianco e nero: idem come sopra, qual è l’apporto visuale che il colore non ti dà?

Anche questa è una domanda complicata. Sono sempre stato portato a pensare che a livello visivo una minore quantità di informazioni ( il monocromo) potesse sviluppare maggior fantasia o immaginazione nel fruitore. Personalmente non amo le cose troppo colorate, tendono a distrarmi e per questo penso che la scelta cromatica del mio lavoro sia caratterizzata da questa sensazione, oltre al vantaggio di creare più facilmente un contrasto tra figura e sfondo, spesso anch’esso monocromatico. È anche un discorso di semplicità.

Progetti futuri?

Sopravvivere!

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