A cosa serve l’arte? A niente. In un momento di crisi, come quello che si sta vivendo, non serve più nemmeno a fare soldi
Così il gallerista Roberto Milani in un articolo scritto in esclusiva per un fogliuzzo kritiko tempo fa.
Son passati tre anni da quella zingarata editoriale (la nostra, non la sua) a kunstArt12 a Bolzano, ma pare che non vi sia granché di nuovo sotto il sole, almeno dal punto di vista dell’economia dell’arte, almeno dal punto di vista dell’Italia.
A farne le spese sono gli attori principali del business, i galleristi e gli artisti (‘ché senza questi non ci sarebbero nemmeno i primi).
Io sono un grande “fan” delle gallerie private: in un paese, l’Italia, in cui fare impresa è un’attività da eroi, gli oneri gravano tutti sulle loro spalle. Il confronto col settore pubblico, che fa le grandi mostre attraverso il Minculpop e gli enti inutili come le Regioni o le Province (abolite, ma reintrodotte surrettiziamente), è impietoso.
Forse dovremmo prendere esempio da Prada e Trussardi, fare i sarti e darci all’arte. Todos cabelleros sulla rive gauche dell’impegno.
Lo dico sempre, la politica dovrebbe stare fuori dalla cultura: lo Stato dovrebbe estinguersi (almeno da lì). Non ci vuole il Ministero per promuovere la cultura, ma un valido commercialista che, legibus solutus, realizzi, tanto per fare un esempio, una drastica riduzione dell’iva (ecco perché i quadrucci costano tanto signora mia!).
Quella del gallerista è la realizzazione più chiara del processo economico chiamato reinvestimento degli utili.
Non vedrete mai un gallerista scorrazzare su una Lambo Sesto Elemento, a meno che non sia ricco di famiglia: il suo status economico infatti non glielo consentirà mai, dovendo costantemente reinvestire il fatturato di galleria in una serie di attività (mostre, fiere, cataloghi, comunicazione, viaggi et cetera, cui si aggiunge il “dazio” allo Stato) rispetto alle quali il vernissage, quel momento di cui parlan tutti, persino Sette del Corriere della Sera, è solo l’aspetto cerimoniale e, a volte, nemmeno così importante. Dopo, resta ben poco per darsi alla dolce vita.
Per carità, “pescecani” (non mi riferisco a Gagosian: lui è noto con il soprannome di “squalo”) e cialtroni sono anche qui, ma si identificano facilmente. Come insegnava un vecchio spot tv, se li (ri)conosci li eviti.
In compenso, cittadine e cittadini, Roberto Milani lo conosco e non lo evito, al punto da inaugurare proprio con lui questa nuova rubrica kritika.
Allora Roberto, quando hai iniziato a occuparti d’arte?
Avevo quattordici anni – una vita fa, visto che viaggio verso i cinquantadue. Mi avvicinai all’arte grazie a Sergio Gobbato, un mercante che organizzava aste nei migliori ristoranti di Milano (ai tempi si usava). Allora facevo il “cavalletto umano”, ma mi si aprì un mondo.
Ma forse, pensandoci bene questa “malattia” è nata anche prima dei quattordici anni. Ricordo mio padre che mi portava a vedere le aste che si tenevano in tante piazze delle varie località turistiche estive. Era un piccolo collezionista e forse il tarlo arriva da lì
Che tipo di approccio è il tuo al lavoro di un artista? Cosa valuti per capire se ti trovi davanti a uno che è la fine del mondo?
Non credo alla fine del mondo! Credo però nelle idee e nel lavoro. Nella creatività e non nell’estrosità. Nella capacità e non nell’improvvisazione. Ma credo soprattutto nella serietà.
Di fatto, però, sono curioso di natura e quindi valuto sempre tutto con attenzione. Anche quelli che non si avvicinano minimamente al mio concetto di arte.
Musei, ma anche politica economica: una tua opinione sull’intervento pubblico nell’arte contemporanea. Serve? Non serve? Concorrenza sleale?
Dovrebbe servire, peccato che il più delle volte sia latitante! In tante altre nazioni l’arte è più che sostenuta dalla politica e dai musei. Non si tratta di concorrenza: manca coerenza!
Se fosse per me, ad eccezion fatta di alcune rare realtà, privatizzerei tutti i musei
Ma questo solo dopo aver cambiato le regole. In Italia abbiamo una legislatura un po’ obsoleta…per farle un complimento!
Perché è così raro vedere delle partnership in Italia? Tutti gelosi del proprio tesoretto?
La torta è troppo piccola da spartire e ognuno pensa a mangiarsi la propria fetta. Ovviamente sbagliando!
Trova le differenze fra un collezionista italiano e uno no
Trova tu, se riesci, delle analogie! Guarda solo il regime fiscale, il trust, i vincoli…Come già dicevo prima, sono le regole che devono cambiare!
Molti galleristi le loro mostre se le curano da sé. Secondo te, quanto può pesare il ruolo di un curatore sull’”economia aziendale” di una galleria?
Io sono uno di quelli, anche se spesso mi avvalgo della collaborazione di alcuni curatori indipendenti (alcuni di questi molto validi). Oggi tutto pesa sull’economia aziendale di una galleria, ma non penso che sia una questione di mera economia, ma di benefici.
La scelta di un curatore piuttosto che un altro dovrebbe essere determinata dalle possibilità di aumento di visibilità che quella firma prescelta dovrebbe portare all’attività della galleria. Tutto ciò, purtroppo da tempo, non avviene.
La figura del curatore, sdoganata dagli ambienti museali, dovrebbe essere quella di un consigliere, di educatore, un sigillo di qualità e scelta.
Il rapporto che dovrebbe nascere fra un gallerista, un artista e un curatore dovrebbe essere lindo e trasparente, un rapporto di quasi complicità, ma ahimè non sempre va così: arriva, scrive la sua cartella, se ti va bene segue anche l’allestimento e poco altro. Addirittura mi è capitato, non faccio nomi per problemi legali, che ti porti via i collezionisti e si metta a fare lui il mercante!
Ma parliamoci chiaro, anche il curatore deve tener d’occhio la propria economia:
i “no, quell’artista non mi interessa” sono sempre meno
Questo ha fatto sì che molti abbiano mangiato la foglia e sentano l’odore di marchetta lontano un miglio. L’unico che gode in fondo è l’artista, che può eventualmente vantare un altro nominativo nel suo curriculum, spesso “comprato”.
E quanto pesa invece il giudizio di un critico sul lavoro di una galleria?
Ovviamente dipende dal critico. Il ventaglio è ampio e variegato. Molti dei critici che conosco non valgono nulla e di conseguenza anche il loro giudizio. Altri, beh…se Massimiliano Gioni venisse da me in galleria e spendesse due parole a favore delle scelte fatte, avrebbe certo un bel peso!
Da troppo tempo si parla di crisi economica. Giro a te la stessa domanda rivolta ai curatori: qual è lo stato attuale dell’arte, almeno nella provincia italiana? Chi domina il campo? Quali sono gli scenari futuri?
La qualità e la cultura! Questi due fattori dominano il campo.
Sia che si parli di artisti emergenti, che di quelli storicizzati. Non è un problema di provincia: è territorialmente diffuso, da est a ovest, da nord a sud, in tutto lo stivale! La crisi c’è, oramai è un dato di fatto e bisogna essere stati bravi ad avere acquisito le dinamiche per poterci convivere. Chi non lo ha fatto, o ha chiuso o naviga a vista.
Il vero grave problema della crisi è che ha scatenato la “guerra tra poveri”, del prezzo e non del valore, della firma e non del contenuto. E questo certo non fa bene al sistema.
Molti ne stanno pagando le conseguenze: artisti che devono riscuotere, collezionisti poco soddisfatti e galleristi diventati bottegai (quando va bene).
Il mio personale consiglio per il futuro è quello di affidarsi a tutta quella serie di “portatori sani di qualità” (ce ne sono ancora tanti in giro) e farsi consigliare: ma non dall’amico, e nemmeno dal teorico, ma da chi vive in questo settore da anni e ha professato questa attività con uno sguardo al mercato e uno all’arte. Il futuro potrebbe essere migliore: dipende soprattutto da noi. Possiamo decidere (se ancora ne abbiamo le facoltà!)
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