Giampaolo Abbondio – ph Michele Sereni, con opera di Marco Neri sullo sfondo
Questa intervista l’abbiam fatta alla vecchia maniera. Neanche col registratore a bobine, ma con carta e penna al bar, di fronte a un bicchiere di vino rosso e un campari shakerato.
Giampaolo Abbondio è stato uno dei primi galleristi che ho conosciuto e Andrei Molodkin, uno dei suoi artisti di punta, ha avuto l’onore di finire sulle pagine a colori di un fogliuzzo uscito qualche anno fa.
Ora Giampaolo, come Galleria Pack, è coinquilino di Federico Luger, altro gallerista che frequento da quand’ero fantolino, cioè non più tardi di 7 anni fa (e fra non molto leggerete anche le sue, di parole). Potete trovare qualcosa su di loro qui, detto per inciso. .
E ora stop con la pubblicità progresso. L’intervista che segue è un po’ atipica: più che un’intervista, si è trattato di una conversazione inframmezzata da gaie divagazioni, anche perché alla fine i bicchieri sono diventati quattro.
Come annunciava Annarella Giudici benemerita soubrette, cittadine e cittadini…
Allora Giampaolo, quando hai iniziato a occuparti d’arte?
Circa vent’anni fa. Allora, per me la visita a una mostra d’arte, Tintoretto, Tiziano, Leonardo, Caravaggio, in Italia ma anche a Londra, Parigi et cetera, era un po’ il “pagamento del dazio” per infilarmi poi in qualche negozio di dischi (come sai, sono da sempre un appassionato di musica). Un bel giorno incontro Luigi De Ambrogi in un bar, che mi mostra un’opera di Boetti. Beh, è stata un’accelerazione da 0 a 100 in 0 secondi: da quel preciso istante mi sono innamorato visceralmente dell’arte contemporanea, tant’è vero che nel 2001 ho aperto la Galleria Pack proprio insieme a Luigi De Ambrogi.
Che tipo di approccio è il tuo al lavoro di un artista? Cosa valuti per capire se ti trovi davanti a uno che è la fine del mondo?
Cerco di capire se ha un linguaggio universale. L’arte non deve sconfinare nell’intellettualismo, ma essere aperta a tutti. Aggiungo che per me è importante anche la titolazione di un’opera: deve contenere già tutto il suo senso, senza inutili e lunghe divagazioni concettuali. Duchamp, Fontana, hanno detto tutto senza dire nulla o quasi, praticamente. L’arte deve creare domande, non risposte.
Musei, ma anche politica economica: una tua opinione sull’intervento pubblico nell’arte contemporanea. Serve? Non serve? Concorrenza sleale?
E’ fondamentale: un Paese deve strutturare la propria cultura. Il problema tuttavia lo conosciamo tutti: i tagli alla cultura, praticati da ogni governo, indipendentemente dal suo colore politico. Bisognerebbe azzerare tutto e ricominciare, ma per fortuna si intravede qualche segnale di ripresa. Speriamo che duri…
Perché è così raro vedere delle partnership in Italia? Tutti gelosi del proprio tesoretto?
Guarda, ti posso dire che, dopo l’esperienza con la Galleria Pack in Foro Bonaparte, ho trovato l’energia necessaria in Federico (Luger): siamo amici e ci spalleggiamo a vicenda. Circa il “tesoretto”, come lo chiami tu, beh, mi rendo conto che io stesso ne sono geloso: ma difendo il mio pensiero, mica il mio orticello, sono due cose diverse. Io difendo le mie scelte, di lavoro e di vita. Vendere un Gligorov, un Serrano, un Basilè è importante, ma mi preme soprattutto che quel chiodo lì sia occupato proprio da quell’artista che sento più vicino al mio pensiero. Ma poi, sai, a cosa serve che una galleria produca 2000 artisti? Ci si dovrebbe concentrare di più sugli artisti più forti. Poi, chiaro, se un gallerista di Perugia, ad esempio, mi propone un rapporto di collaborazione con un mio artista, ben venga.
Trova le differenze fra un collezionista italiano e uno no
Non ho collezionisti stranieri, quindi non potrei risponderti sensatamente. Posso però farti un esempio: collezionare i vinili dei Sex Pistols è diverso dal collezionare quelli, chessò, dei Beatles. In quest’ultimo caso l’amatore si trova di fronte a una produzione sterminata in cui non è affatto facile districarsi. Io prediligo, diciamo, quel collezionista che ama il pensiero di quell’artista: magari non gli piace proprio del tutto quell’opera lì, ma la compra lo stesso, perché è affascinato dal suo pensiero e quindi in un certo senso ne acquisisce un frammento.
Molti galleristi le loro mostre se le curano da sé. Secondo te, quanto può pesare il ruolo di un curatore sull’”economia aziendale” di una galleria?
Guarda, a una galleria un curatore non è che serva a molto: un gallerista lo conoscerà bene il suo spazio, non ha bisogno di un intervento esterno che gli spieghi come appendere i quadri e quali scegliere. A me, in quanto gallerista, serve davvero un curatore che mi dice come appendere 4 quadri? E poi c’è l’artista: lo saprà bene, l’artista, come mettere i suoi quadri, no? Piuttosto, quel che serve è il critico, che propone il suo artista alle grandi gallerie. Servono critici, non curatori.
E quanto pesa invece il giudizio di un critico sul lavoro di una galleria?
C’è bisogno di critica come dell’ossigeno per respirare! Basta che non siano critici alla touring club, quelli che si limitano alla spiegazione di quel che c’è da vedere e stop.
Da troppo tempo si parla di crisi economica. Giro a te la stessa domanda rivolta ai curatori: qual è lo stato attuale dell’arte, almeno nella provincia italiana? Chi domina il campo? Quali sono gli scenari futuri?
Nessuno domina il campo. Ora l’Italia è un venditore d’arte, le “Italain sales” si sprecano, le fiere son piene di opere italiane, Simeti, Vigo, Castellani, chi se l’aspettava dieci anni fa che li avrebbero venduti alle cifre attuali? Te le sognavi, allora! E comunque: basta pensare solo al denaro! Nessuno guarda l’arte che si fa ora? Va bene così! Così gli artisti si induriscono un po’…
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