In copertina: Federico Rui visto da Alessandro Busci
Milangeles – L’Italia è per sua costituzione fatta di piccoli orticelli (arriviamo pur sempre dai comuni). I galleristi ne sono senz’altro un esempio lampante. Purtroppo ci sono stati anni in cui si vendeva tutto e di tutto, per cui non c’è mai stata l’esigenza di allearsi. Anzi le gallerie come in un libero mercato erano concorrenti e come tali si comportavano. Anche gli artisti si sono adeguati ben presto a coltivare il proprio orticello
Federico Rui accetta di conversare con Kritikaonline per provare a decifrare uno dei temi chiave di questa fase, soprattutto italiana, dello stato dell’arte.
Inutile aggiungere che ho lavorato anche con Federico, del resto sono un tradizionalista e prediligo la pittura, ma qui l’obiettività è inespugnabile, parola di boy scout -e poi, sai mai che un giorno o l’altro sempre qui farà capolino anche lui.
Intervento pubblico e impresa privata, cosa significa essere e fare il gallerista oggi, gli artisti, il ruolo dei critici e dei curatori e tanto altro in questa succosa intervista.
Allora Federico, quando hai iniziato a occuparti d’arte?
A tre anni accompagnavo mio nonno alle inaugurazioni, anche se non ero consapevole di ciò che facevo. Nel 1994 ho iniziato a lavorare come assistente in una storica galleria milanese. Avevo diciannove anni ed è stata una grande scuola. Nel 2002 ho aperto con un socio (che ora si occupa di altro) la mia prima galleria: Pittura Italiana. Nel 2009 l’ultimo passo con la nascita di Federico Rui Arte Contemporanea. Ora sono consapevole di ciò che faccio.
Che tipo di approccio è il tuo al lavoro di un artista? Cosa valuti per capire se ti trovi davanti a uno che è la fine del mondo?
Il mio è un approccio di tipo razionale. Devo vederlo, rivederlo, studiarlo, meditarci… anche se poi questo meccanismo serve solo a confermare una intuizione iniziale. Fondamentalmente deve darmi sensazioni ed emozioni. Poi, essendo comunque anche un rapporto lavorativo, ci devono essere le basi per una collaborazione professionale.
Purtroppo non ho ancora trovato “uno che sia la fine del mondo”, ma non credo che esista. Possono esistere 10/12 buone opere all’anno (e sono già parecchie), il resto è pura ripetizione
Forse è per questo che prediligo artisti che producono poco.
Musei, ma anche politica economica: una tua opinione sull’intervento pubblico nell’arte contemporanea. Serve? Non serve? Concorrenza sleale?
Non mi risulta che in Italia ci sia alcun tipo di intervento pubblico. Esiste qualche sparuto tentativo di affacciarsi nell’arte contemporanea, ma nulla di più. Per lo più è in mano ai privati. Diventa concorrenza sleale laddove si costituisca un cartello – e questo vale sia per il pubblico che per il privato – che sia basato non su principi meritocratici. In linea di massima l’ideale sarebbe una co-gestione privato e pubblico, proprietà statale e gestione privata…ma è un argomento molto lungo, che passa attraverso una politica di valorizzazione e una serie di interventi legislativi e finanziari, che al momento non sono neanche in programma.
Perché è così raro vedere delle partnership in Italia? Tutti gelosi del proprio tesoretto?
L’Italia è per sua costituzione fatta di piccoli orticelli (arriviamo pur sempre dai “comuni”). I galleristi ne sono senz’altro un esempio lampante. Purtroppo ci sono stati anni in cui si vendeva tutto e di tutto, per cui non c’è mai stata l’esigenza di allearsi. Anzi le gallerie come in un libero mercato erano concorrenti e come tali si comportavano
Anche gli artisti si sono adeguati ben presto a coltivare il proprio orticello
Oggi i modelli sono cambiati e bisogna trovare nella alleanze il punto di forza.
Trova le differenze fra un collezionista italiano e uno no
A Basilea gli affari si fanno il giorno prima dell’inaugurazione. In Italia il giorno di chiusura della fiera. All’estero ci sono incentivi, defiscalizazioni, detassazioni… insomma l’arte è un valore e come tale viene incentivato. In Italia ci sono le tasse, il diritto di seguito, l’iva sleale comparata al mercato internazionale, le segnalazioni alle varie agenzie… insomma l’arte è un lusso e come tale va perseguita.
Molti galleristi le loro mostre se le curano da sé. Secondo te, quanto può pesare il ruolo di un curatore sull’”economia aziendale” di una galleria?
Io vedo il ruolo del curatore come posizione cardine all’interno di un sistema pubblico. Nel sistema privato il gallerista è il primo e l’unico curatore all’interno della sua galleria. Ovvio, laddove il gallerista sia un mestiere, e non sia un’attività secondaria! Ciò non toglie ovviamente che un gallerista ha bisogno di collaboratori e collaborazioni, di suggerimenti e idee, di un confronto… quindi ben vengano i curatori, laddove non siano una scatola chiusa ma un confronto costruttivo. Ben vengano quando sono curatori e non mercanti part time. Ben vengano quando portano un valore aggiunto al lavoro di gallerista e artista.
E quanto pesa invece il giudizio di un critico sul lavoro di una galleria?
Dipende dal peso del critico.
Togliendo gli addetti al settore, ormai, ben poca gente legge… e ben pochi critici hanno peso
Da troppo tempo si parla di crisi economica. Giro a te la stessa domanda rivolta ai curatori: qual è lo stato attuale dell’arte, almeno nella provincia italiana? Chi domina il campo? Quali sono gli scenari futuri?
La parola crisi è ovviamente sulla bocca di tutti. Normalmente questi periodi servono a due cose: fare una selezione e sviluppare nuove idee. Questo è ciò che ci si auspica nel medio periodo.
Nel breve periodo questo porta invece a “spendere” sulle firme conosciute, e non a scommettere sul talento
Nulla di male, finché le firme conosciute sono tali perché di moda. Al momento l’arte italiana sta vivendo anche a livello internazionale un momento di discreto successo, dominato dalle scene astratto concettuali in particolare degli anni Sessanta e Settanta (e loro derivazioni)
Sarò di parte, ma la nostra tradizione figurativa può avere ancora molto da dire, e lo dirà…
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