Ecco a voi una personalità poliedrica come quella di Francesco Nonino: un artista che sfrutta la sua preparazione medica per analizzare il paesaggio con la minuzia con la quale si dovrebbe visitare un paziente. È stato assistente di Annie Leibovitz a New York e ha partecipato a diverse campagne pubblicitarie come per American Express Company e Vanity Fair; è conosciuto in Italia e all’estero e le sue opere fanno parte di numerose collezioni. Uno dei suoi progetti è Habitat. Il lavoro indaga oggettivamente gli spazi pubblici e le persone che li popolano e in questo modo riesce ad ottenere un’analisi sociologica del territorio che ci circonda. L’artista ha spiegato dettagliatamente le caratteristiche dell’opera e le ragioni che lo hanno spinto alla realizzazione del progetto.
Chiara Pozzobon: Habitat è un progetto nato nel 2008, fotografando in modo oggettivo i luoghi, ce ne parli?
Francesco Nonino: Il titolo Habitat si riferisce a spazi pubblici all’interno dei quali le persone svolgono le proprie attività quotidiane. Nei lavori che ho realizzato tra il 2008 e il 2012 il ciclo si compone di immagini statiche e di animazioni stop-frame, ottenute cioè montando in rapida sequenza singole fotografie realizzate mediante una fotocamera temporizzata che scatta a intervalli di tempo regolari. Le riprese sono da un punto fisso, su cavalletto, e durano 24 ore: l’unità di tempo standard che scandisce il “quotidiano”. Le immagini fotografiche sono quindi frames del video, o loro dettagli. Nel montaggio dei video ho scelto di mantenere una velocità di sequenza bassa, molto al di sotto di quella che produce l’illusione di un movimento fluido, in quanto volevo conservare l’impressione di frammenti temporali singoli, l’idea di immagine statica.
Nel primo lavoro che ho realizzato, ho ripreso la facciata del palazzo di fronte a casa mia, un alveare umano le cui finestre si illuminavano, si aprivano e chiudevano a scandire il ritmo di vita degli inquilini. Le immagini statiche erano costituite dal dettaglio di ciascuna finestra in cui compariva in qualche momento un essere umano. In seguito ho fatto altri due lavori che avevano come soggetto un parcheggio e un parco pubblico seguendo la stessa sistematicità: un video stop-frame, che in circa due minuti comprimeva le ventiquattro ore, e alcune decine di piccole immagini raffiguranti singole persone che comparivano nei fotogrammi, a realizzare una installazione più che una mostra di fotografie.
Quali aspetti sociali hai dedotto indagando la zona di confine tra Italia e Slovenia?
Per esplorare il confine Italia-Slovenia sto utilizzando lo scanner, uno strumento che consente ancora meno controllo rispetto alla fotocamera e che quindi facilita, e in un certo senso costringe alla “oggettività” della rappresentazione, intesa come rinuncia dell’autore a interpretare il soggetto, lasciando fare alla macchina. Il confine è una linea invisibile sul territorio che possiamo identificare solo astrattamente attraverso le coordinate geografiche, che in questo lavoro sono parte integrante delle immagini: ciascuna fotografia reca il geo-tagging del punto dove è stata realizzata. Questo confine in particolare è divenuto ancora più immateriale nel momento in cui la Slovenia è entrata nell’Unione Europea, sono state abolite le frontiere e sono scomparsi fisicamente i valichi confinari. Io ho assistito personalmente a questo cambiamento perché sono nato in Friuli e conservo tra i miei ricordi di ragazzino il confine da attraversare con il passaporto, rispondendo alle domande dei doganieri. Scannerizzando un metro quadrato di suolo nel punto esatto in cui passa il confine, in corrispondenza degli ex-valichi di frontiera, sto realizzando immagini fotografiche ad alta risoluzione che danno a un punto virtuale la forma di realtà fisica ricca di dettagli. A questo punto ritengo la mia operazione conclusa, cioè non cerco necessariamente un segno o un codice visivo che mi parlino del confine, mi basta realizzare la documentazione oggettiva del “qui e ora”. Ciononostante, in alcune immagini sto trovando segni (scontrini dei distributori di benzina, pacchetti vuoti di sigarette…) che documentano le attività comunemente associate al passaggio oltreconfine dei residenti in questa zona del Nordest: l’acquisto di beni di consumo che in Slovenia hanno prezzi più convenienti che in Italia. Questo è stato tuttavia un elemento che mi è stato rivelato dalla fotografia senza che io lo cercassi.
Con questo tuo indagare il territorio ti definiresti un fotografo di paesaggio?
La fotografia di paesaggio che trovo più interessante è quella che, pur partendo da aspetti formali, tenta di superarli aprendo questioni di carattere sociale, antropologico, politico. In altre parole ci porta a interrogarci su ciò che guardiamo e che spesso diamo per scontato. In questo senso mi sento un fotografo di paesaggio perché vorrei – come dicevo prima – usare la macchina come strumento per allargare le mie conoscenze, o almeno per pormi delle nuove domande su quello che penso di conoscere già.
Adottando un metodo di indagine oggettivo l’autore in un certo modo si fa da parte privilegiando il ruolo dell’apparecchio, perché hai scelto questo approccio?
In Fotografia e Inconscio Tecnologico, Franco Vaccari ha scritto che la fotografia – in quanto rappresentazione del mondo attraverso una macchina – incorpora un “inconscio tecnologico”, una sorta di vita propria che la macchina possiede e che emerge sempre nelle immagini realizzate, indipendentemente dalle aspettative dell’autore. È questo che rende la fotografia unica rispetto alle altre tecniche di rappresentazione visiva e ho cercato di sperimentarlo, nell’ambito che mi circonda, affidando alla macchina un ruolo centrale. Noi tutti tendiamo a non percepire ciò che ci è familiare; vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere, quello che abbiamo visto ieri e presumibilmente vedremo anche domani: a nessuno viene in mente di fare delle fotografie mentre va al lavoro o a prendere i bambini a scuola, perché siamo convinti che queste situazioni non rivestano alcun interesse, non celino alcuna problematica degna di attenzione. L’oggettività della fotografia consiste nel distinguere il guardare dal vedere, registrando tracce di cose del mondo che l’occhio non vede. Naturalmente l’oggettività assoluta non esiste: c’è sempre una scelta a priori o a posteriori che è frutto della volontà dell’autore, ma in Habitat ho cercato di minimizzarla consentendo alla macchina per quanto possibile di “lavorare da sola”.
Si potrebbe definire la tua persona come un antropologo che fa ricerca sul campo, studiando l’habitat, appunto, e allo stesso tempo un criminologo, che raccoglie minuziosamente gli indizi della scena in modo imparziale.
Probabilmente sì, solo che, a differenza del criminologo, io lavoro senza sapere ancora se è stato compiuto un delitto.
La tua indagine sul suolo è simile alla dettagliata documentazione della panchina sotto il soggiorno di casa tua, (esposta a Charleroi nel 2011) nella quale catturi ogni istante di questo oggetto, occupato da persone diverse e illuminato dal sole o dalla luce elettrica, compiendo un’indagine sociologica.
Nella serie La panchina ho fotografato per oltre un anno questo elemento importante del mio quotidiano che tu hai citato. Tutte le immagini sono state realizzate dallo stesso punto, con la stessa fotocamera montata su un cavalletto, al ritmo di una al minuto. Nella mostra che ho realizzato nel 2011 presso la galleria Jacques Cerami a Charleroi ne è stata esposta una selezione. Del progetto fa parte anche un video-loop realizzato montando consecutivamente quattro serie di riprese, ognuna delle quali copre l’arco di ventiquattro ore per ciascuna stagione dell’anno: un giorno e una notte per ogni stagione, il tutto compresso in circa otto minuti di filmato. Nel lavoro che sto facendo sul confine, così come ne La panchina, c’è l’analisi di un contesto attraverso i dettagli. Nel primo caso l’analisi è spaziale: lo scanner consente di vedere micro-dettagli della superficie del suolo, che abitualmente non si vedono, in un punto virtuale, cioè il confine. Nel secondo caso ho esplorato una stratificazione di dettagli temporali: il video consente di percepire una dimensione temporale umana in relazione a quella naturale, scandita dal ritmo giorno/notte e dal susseguirsi delle stagioni, mentre la panchina stessa diviene un elemento fisso, una specie di scala di riferimento attorno a cui ruota tutto il resto.
Francesco Nonino (Udine, 1960) ha coniugato una formazione scientifica (laurea in medicina e specializzazione in neurologia) con un forte interesse per la fotografia coltivato attraverso la pratica e frequentando corsi presso l’Università e l’Accademia di Belle Arti di Bologna. E’ stato assistente di Annie Leibovitz a New York City. Il suo lavoro è parte delle seguenti collezioni: Phillips Collection (Washington, DC), Library of Congress (Washington, DC), CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma), Istituto Nazionale della Grafica (Roma), Bibliothéque Nationale de France (Parigi), Musée de l’Elysée (Losanna), Archivio Italo Zannier (Fondazione di Venezia, Venezia), Museo di Fotografia Contemporanea (Cinisello Balsamo, Milano), Museo di Palazzo Fortuny (Venezia). Vive e lavora a Modena.
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