Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita e allo sviluppo (“relativo”, in quanto abbastanza ripetitivo) di un fenomeno di arte urbana che ha potuto godere di una vasta e significativa pubblicità, come fosse una novità nel panorama, quanto mai eclettico ed apparentemente sovversivo, della street art.
Non mi riferisco alle scritte sui muri, alle tags o ai murales che “adornano” le pareti degli edifici delle capitali di tutto il globo terrestre (forse ad esclusione solo di Pyongyang), ma agli interventi di alterazione della segnaletica verticale, cioè dei cartelli che indicano le regole della circolazione stradale: una simpatica moda che ha avuto in Clet, artista francese attivo in Italia da diversi anni, il suo riferimento principale, tanto da riconoscere in lui l’alfiere di questo “nuovo” linguaggio artistico.
La verità invece è un’altra, perché esiste già da molti anni un artista italiano, presente sin dalla fine degli anni Ottanta e tuttora in attività, che esegue queste manipolazioni di senso della semantica della segnaletica stradale, inventando nuovi cartelli con grande ironia ed intelligenza, non limitandosi a una semplice alterazione formale, ma aggiungendo dei messaggi significativi, anche da un punto di vista più strettamente sociale.
Francesco Garbelli, artista milanese, comincia la sua attività artistica con l’esperienza della Brown Boveri, fabbrica dismessa della sua città e occupata da vari artisti, all’interno della quale potevano sperimentare liberamente diversi linguaggi, soprattutto di tipo concettuale ed installativo.
Dopo quel primo periodo di ricerca e dopo l’abbattimento forzato della fabbrica, Garbelli non si è rinchiuso in uno studio polveroso e buio a portare avanti la sua sperimentazione linguistica, ma ha cominciato ad agire proprio all’esterno, trovando nell’ambiente urbano il proprio “spazio espositivo” privilegiato.
L’intento è sempre stato quello di interagire con il più vasto pubblico possibile, con interventi destabilizzanti ed improvvisi, al limite dell’abusivo, avendo cura di stimolare riflessioni approfondite sulla natura stessa delle sue azioni.
Tutti questi interventi sono stati accuratamente documentati dall’artista con immagini fotografiche e all’epoca anche prontamente colti dalla carta stampata che, in un’epoca pre internet, pubblicava articoli corredati da fotografie in “tempo reale” (che comunque significava qualche giorno dopo) anche a seconda della disponibilità degli spazi liberi nelle pagine del giornale. La differenza tra allora (fine anni Ottanta e primi anni Novanta) e ora sta proprio nella dimensione temporale: ciò che adesso è possibile fotografare e pubblicare nell’immediato su un qualsiasi social network (o anche giornale online) allora richiedeva un po’ più di tempo.
Quello che è giusto sottolineare in questa sede, cogliendone l’occasione d’oro, è proprio la mancanza di onestà da parte degli addetti ai lavori nel non difendere una produzione artistica anche ben conosciuta all’epoca in cui è stata realizzata e documentata da diversi articoli in giornali quotidiani o anche di settore (tra cui Corriere della Sera, Flash Art e Tema celeste). Questa è l’atavica mancanza di memoria che attanaglia il nostro Paese malato di esterofilia e sempre in ritardo sui tempi perché caratterizzato da un’ignoranza di fondo farcita anche di pigrizia oltre che di autolesionismo…
Qui non si parla di percorsi artistici e di carriere più o meno rapide, quanto di dati di fatto, di opere realizzate, esistenti, concretamente elaborate ed immesse in circolazione sotto gli occhi di tutti e quindi storicamente conosciute.
Non si tratta del solito gruppetto di artisti sponsorizzati da gallerie potenti e quindi provvisti automaticamente di attestazioni di qualità che ne certifichino l’importanza nel campo della ricerca artistica. Qui si tratta esclusivamente di conoscenza, di consapevolezza dell’esistenza di un lavoro che si è protratto nel tempo per anni e che è stato realizzato proprio nel momento opportuno, e che ha addirittura anticipato i tempi.
Forse è lo scotto che deve pagare il precursore: vedere il proprio lavoro copiato vent’anni dopo e non poter godere del privilegio dell’esclusiva, ma almeno il riconoscimento di un’intuizione avvenuta in tempi non sospetti, quando si respirava l’atmosfera giusta, quell’aria fresca dopo anni di concettualismo duro e a volte troppo ermetico.
Finché l’arte sarà monopolio di alcune realtà, la cui qualità deve ancora essere riconosciuta dalla Storia (quella vera, quella che si scriverà fra un centinaio di anni e nessuno di noi sarà presente a verificarne i risultati) nel frattempo si osannerà la copia, si premierà l’iterazione, si esalterà la pigrizia mentale, la noia creativa, si rimarrà fermi nella linea temporale a guardarsi attorno, come colti da un’amnesia congenita, in grado di provocare danni paurosi nell’evoluzione dei linguaggi creativi e delle nuove soluzioni espressive.
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Bene, grazie, sono felice per Francesco, sarebbe ora di rivalutare l’intelligenza che molti di noi hanno donato in quegli anni e che il “sistema” ha puntualmente ignorato.
Sono a disposizione per accelerare questo recupero delle qualità reali nel limite del mio possibile.