FEDERICA LANDI | DEATH OF TIRESIAS

1 Posted by - August 13, 2017 - Interviste

Federica Landi, oltre ad essere artista, è anche docente presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e co-fondatore di Riu, (uno spazio indipendente dedicato alla ricerca nel campo dell’arte visiva).

Oggi voglio parlare con lei di uno dei suoi ultimi lavori, The Death of Tiresias, un’opera composta da sei dispositivi realizzati con ritratti fotografici, luci e superfici specchianti, che tratta la vicenda delle ragazze africane cacciate da Goro e Gorino nell’ottobre del 2016.
 
 
Tiresia nella mitologia greca era un veggente privato della vista: ci spieghi la scelta del titolo The Death of Thiresias?

Il progetto The Death of Tiresias nasce come riflessione sui meccanismi della visione e intende porre interrogativi sulle facoltà dell’organo della vista di riordinare e comprendere approfonditamente il mondo.  In altre parole il progetto mette in discussione la relazione tra visone e conoscenza. Tiresia è una figura antica e appare nella letteratura greca come simbolo di un’esperienza del mondo che nasce interiormente e che lo porta a percepire la verità in quanto maggiormente connesso con la voce degli dei. In virtù della sua cecità egli sviluppa le sue doti divinatorie, amplifica i suoi sensi e prevede il destino degli uomini. Tiresia fa parte di una società antica che non esiste più, dove l’immagine era chiaramente la forma esteriore dell’oggetto, un involucro che ne celava la complessità interna, davvero difficile da pensare al giorno d’oggi dove tutta la nostra comunicazione è delegata all’immagine. Il titolo del progetto si riferisce dunque alla scomparsa di quell’ uomo in grado di fare esperienza del mondo al di fuori della sua rappresentazione per immagini.

Come è stato l’approccio che hai avuto con le ragazze rifiutate da Goro e Gorino?

Quando mi sono presentata agli operatori sociali del progetto di accoglienza di cui fanno parte anche le ragazze mi misero allerta sulle possibili difficoltà di comunicazione e approccio che avrei potuto incontrare. “Sono personalità molto forti” mi dissero “ e hanno il carattere forte delle africane dell’Ovest ”. Io sapevo già di cosa stavano parlando poiché avevo frequentato la comunità nigeriana anni prima a Londra ed in parte ne conoscevo le modalità. Quando le ho incontrate è stato come sedermi davanti a dei muri spessi, a cancelli serrati che non lasciavano andare oltre ma ho pazientato, cercando di tenere bene a mente il motivo per cui ero lì: incontrare quegli individui in quanto donne, cittadine d’Europa con un futuro, dei bisogni e dei desideri. Avevo anche la sensazione forte che quella fosse un’ opportunità non solo per ‘vedere meglio’ loro, ma per mettere a nudo anche me stessa, raccontarmi, raccontare il mio paese e chiedere a loro di raccontarmelo. I muri sono durati poco: nel giro di mezz’ora siamo riuscite a rilassarci completamente, parlando come fossimo amiche, parlando di vicende amorose o lavorative, facendoci selfie. Ad un certo punto abbiamo messo su musica e ballato, e da lì a poco è cominciato la sessione di scatti.

Hai tentato anche di avere un riscontro da parte degli abitanti dei due paesi ferraresi? Cosa pensano o penserebbero vedendo la tua opera?

Non ho mai ascoltato la campana degli abitanti dei due paesi ferraresi e ammetto di non aver mai pensato di confrontarmi con loro. Il progetto che ho sviluppato non intende indagare nello specifico il caso di Goro e Gorino ma, partendo dagli effetti di quell’evento, offrire un punto di vista più universale su come l’uomo contemporaneo filtri la realtà tramite l’immagine mediatica e ne sia vittima. Altro argomento è invece il come stimolare una riflessione e coinvolgere un pubblico non avvezzo ai linguaggi dell’arte e alle tematiche sociali. Non sono convinta che l’opera appesa al muro di un museo sia il modo migliore per scuotere le coscienze di un’audience che si alimenta principalmente di ciò che il mainstream mediatico offre. Gallerie e musei richiedono la presenza di individui già emancipati e in grado di lasciarsi coinvolgere autonomamente dalla complessità dell’oggetto d’arte. Coloro che non hanno un’ inclinazione naturale a confrontarsi con l’arte invece richiedono tipi di interventi forse più forti e spregiudicati da parte delle istituzioni e degli artisti stessi. Alcuni interventi di arte partecipata e la creazione di spazi di dialogo alternativi alla galleria potrebbero favorire il dialogo.

Cosa ti aspetti che provi lo spettatore?

Da uno spettatore curioso e interessato a coltivare una sensibilità verso temi sociali mi aspetto che venga attratto dalla peculiarità formale dell’oggetto in sé, che si avvicini e avverta un disturbo che lo porti ad investigare sul significato di un’opera apparentemente non fruibile. Mi aspetto anche che riesca a superare la prima apparenza, ed insista, non se ne vada via prima di aver carpito qualcosa. A quel punto incontrerà l’immagine di una ragazza africana che appare attraverso il fascio di luce come un fantasma, un’identità non ben definibile che lo guarda da lontano, da dietro uno schermo. Spero che lo spettatore rifletta sulla frustrazione di un mancato incontro con quell’individuo e che rifletta su come la mitologia contemporanea del migrante sia principalmente una costruzione dei nostri schermi per i nostri occhi.

Per te l’arte è un filtro o una lente di ingrandimento sulla realtà?

Quando insegno fotografia ai miei studenti dell’Accademia dico sempre che l’arte è uno dei filtri con cui guardare il reale. Lo dico spontaneamente e quindi presuppongo che questa sia l’opzione che mi convince di più.

Nel dirlo immagino proprio un paio di occhiali che, se indossati, infrangono l’ordine dei fenomeni per come si conoscono, smascherano le apparenze portando ad una esperienza del reale più complessa.

Questa modalità non è in alcun modo una forma di intrattenimento: il guardare attraverso il filtro dell’arte investe l’individuo di nuove responsabilità e obbliga a porsi ulteriori domande su ciò che si vede o si credeva di aver visto precedentemente.

Nella tua opera ci sono più livelli di lettura: da un lato lo spettatore deve prendere una decisione: passare avanti e venire abbagliato dai neon o avvicinarsi e tentare di vedere cosa si cela all’interno dei pannelli. L’immagine si intravede meglio nel pannello riflettente, che ricorda in una certa misura anche lo schermo di una tv o di un computer, quindi sembra comunque mediata, e non visibile nella sua intera “verità”.

La cecità è il cuore concettuale dell’opera.

L’impossibilità di vedere chiaramente il mondo  avviene perchè cerchiamo la verità dei fatti dentro gli schermi ed è proprio qui che la complessità delle nostre esperienze subisce una forte mutilazione

Che cosa ci offre di così attraente la verità raccontata dai media e perché la accettiamo con così tanta arrendevolezza? Ci offre uno spettacolo che è diretto agli occhi e che spesso agli occhi si ferma…e li svuota, li acceca perché molte parti non vengono elaborate dalla nostra coscienza.  Essendo la nostra una realtà mediata dalle immagini e dalle ideologie di cui esse si fanno tramite, non abbiamo più chiari quali siano i parametri sicuri per fare esperienze più complesse e autentiche di certi fenomeni. Dentro la rappresentazione costruita da un sistema noi non troviamo mai la nostra verità né la verità del rappresentato. Troviamo solo lo spettacolo mediatico del sistema.

Ritieni che la vista sia un organo che non ci permette di vedere davvero la realtà, che ci crea un ostacolo. Nella tua installazione come mai non hai deciso di utilizzare uno degli altri sensi, negando allo spettatore l’unico senso che poteva servirgli? Con quale organo, secondo te, dovremmo guardare la realtà che ci circonda? Oppure c’ è un modo per “educare” gli occhi ad aprirsi sulla realtà?

Non ho mai pensato che la vista sia un organo fallace e fuorviante di per sè. Penso però che l’ambiente mediatico in cui siamo immersi si sia evoluto enormemente creando immagini che assomigliano sempre di più a dispositivi complessi di controllo e livellamento delle coscienze. La vista è dunque il principale senso su cui occorre vigilare proprio perchè principale bersaglio di un sistema che si è evoluto in modo molto più veloce della nostra capacità di adattamento e risposta ad esso. Se è vero che la nostra comunicazione si basa ormai sulla capacità di codificare e interpretare questi dispositivi visivi, allora diventa urgente strutturare piani di allenamento ed educazione dello sguardo per potere leggere adeguatamente le immagini dentro gli schermi e le loro conseguenti proiezioni sulla nostra esperienza del reale.
 
 
L’opera The Death of Tiresias è visibile all’interno del Festival F4 / un’idea di fotografia, curato da Carlo Sala, presso villa Brandolini, Pieve di Soligo, fino al 27 agosto 2017.
 
Per tutte le informazioni riguardanti la mostra: fondazionefrancescofabbri.it
 

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