La prima reporter donna a fare ingresso alla Magnum Photos (fondata nel 1947 da Henri Cartier-Bresson e Robert Capa). Ossuta. Elegante. Armata di occhi divoratori. Austera. Caparbia. Instancabile. Taciturna. “La ragazza con i capelli bianchi” (come l’apostrofò Marlene Dietrich, sottolineandone il prematuro incanutimento) ha praticamente attraversato un secolo. Scomparsa a gennaio 2012, all’età di 99 anni, adesso Torino ne celebra il viaggio. É infatti a Palazzo Madama la prima retrospettiva italiana che abbraccia gran parte della sua lunga carriera, esponendo più di ottanta scatti in bianco e nero e a colori Una carriera iniziata con un corso di fotografia, della durata di sei settimane, alla New School for Social Research (edificata dal fotografo, art director e designer Alexey Brodovitch, allora direttore della rivista Harper’s Bazaar).
Ai primi segni degli anni Cinquanta lei già lo sa – come avrà modo di insistere stagioni dopo – che non intende offrire “bugie iconografiche”. Lei già sente il prurito dell’orticaria provocata da indubbie messa-in-posa che edulcorano qualsiasi ritratto rendendolo labile, esitante, superficialmente scoptofiliaco. Così, difesa dalla sua modesta fotocamera Rolleicord (devota amica dei primi lavori), si reca ad Harlem (il quartiere afro-americano di New York) per fotografare le sfilate degli abiti realizzati dalla comunità della Chiesa Battista Abissina. Ciò che ne nasce, però, non è la memoria di un ancheggiare fasciato in scampoli di stoffa più o meno ornati, ma un vero e proprio reportage che sceglie di scansare le luci d’una qualsivoglia ribalta per scavare nello spazio fumoso e disordinato del backstage. Ciò che ne nasce è una specie di fotografia di scena; una specie di ripresa in e del movimento. Suo è lo sguardo colto di sorpresa della bellissima modella afro-americana Charlotte Stribling (meglio conosciuta come Fabulous) in attesa del defilé mentre fuma una sigaretta tenendosi con la mano libera l’abito in taffetà; suo il ritocco al maquillage, dinnanzi a uno specchio sistemato alla rinfusa, di due giovani modelle; suo il profilo d’una indossatrice che si sveste e sempre suo il gioco della ragazza che abbassa la culotte davanti all’obiettivo regalando un florido derrière, accarezzato dai ganci del reggicalze in raso.
Eve è una donna che fotografa la donna, non la diva. Tanto che in poco tempo il foto-occhio di Eve diventa ribellione, rinnovamento. Per cinquant’anni descrive star del cinema non con una lingua patinata, statica, dedita al ritocco e per questo adulatrice, ma con un imprinting da reportage. Con movimenti di camera dentro movimenti di corpi e volti. Non le interessa la bellezza-allestita-per-piacere, le interessa la bellezza quando è sul punto di far-si bellezza. L’intensità di un gesto, la contrazione del volto in un attimo di stanchezza. Il sussulto inatteso di un sorriso. L’azione anche vanesia, ma naturale, quasi inconsapevole. Le interessa prima di tutto Marlene, non la Dietrich (un fatale sodalizio durato più di dieci anni). E le interessa la donna che prova e riprova i brani che le hanno dato la celebrità, durante la seconda guerra mondiale, negli studi della Columbia Records. Le interessa il nero pece d’un pullover scollato a V che pare assecondare il disegno arcuato del sopracciglio di questa donna dotata di un’inimitabile intensità al limite dell’intransigente. Le interessa la faticosa rincorsa all’eterna giovinezza di una quasi sessantenne Joan Crawford che non ne vuole saper di cedere lo scettro e instancabilmente trucca la bocca, gli occhi…quasi bastasse un rossetto a far dimenticare la tirannia del tempo che eppure qui diviene re assoluto, perché non c’è l’intero volto dell’attrice a dir-ci, ma il dettaglio delle sole labbra, del solo piegaciglia che traveste un occhio segnato dall’eyeliner e dalle rughe. Le interessa catturare “l’esibizione al rallentatore” (come nelle parole della Arnold stessa) di una Marilyn ritratta di spalle con un mood non dissimile dalla Bagnante di Valpinçon di Ingres, di una Marilyn abbandonata su un letto sgualcito mentre riposa sul set del film Gli spostati. Di una Monroe nella toilette di un aeroporto di Chicago: di schiena all’astante, con l’abito bianco alzato fin quasi in vita a evidenziare la biancheria intima, con le gambe non in posa e per questo forse poco attraenti ai più, con le mani impegnate a ravvivare i celebri ricci biondi e le interessa, in tralice, rubato nello specchio, solo lo sguardo trasognato di una bambina che gioca a farsi bella. Le interessano i ritratti rubati, dunque, quei ritratti che verranno, da lì a poco, definiti ritratti in azione. Eve scatta per eternare la vita da set: Charlie Chaplin che discute con Sophia Loren, Anthony Quinn e Anna Karina ragazzacci in basco e marinière durante le riprese di Gioco perverso. Isabella Rossellini mentre studia le battute di Velluto blu, Monica Vitti in parrucca nera durante le riprese del film Modesty Blaise. La bellissima che uccide.
Anche quando immortalerà spazi urbani (luminosamente arroganti i lavori che vedono come primo attore Times Square); anche quando si confronterà con Malcom X, con il movimento dei Black Muslim, con le più importanti personalities del secolo scorso, con i reportage in Afghanistan (un matrimonio nomade, il gioco dei Buzkashi, bambine adorne di gioielli tribali, i veli delle donne), in Cina (i mercati, la nursery in un cotonificio, una scuola d’arte, la sarchiatura delle risaie) e in India (seguirà spesso Indira Gandhi nei suoi comizi); anche quando riuscirà a documentare i riti Voodoo haitiani, si affiderà sempre a un occhio in movimento riuscendo a catturare attimi del quotidiano, ma mai con retorica. L’enfasi quando c’è è sempre misurata ed è sempre atta a sottolineare il gesto, la situazione. Niente è costruito, allestito. Tutto è come è.
Come in quel progetto fotografico. Progetto al quale affido la chiusura di questo scritto, perché in qualche modo simboleggia la sensibilità di una donna che non ha avuto vita facile (“sono stata povera […], ho perso un figlio e sono stata ossessionata dal parto.”), ma che ciononostante è sempre riuscita a omaggiare l’energia essenziale della creazione, dell’esistere. Si intitola I primi cinque minuti di un neonato. Qui tutto si muove, tutto partecipa. Il taglio delle foto è inusuale, mai scontato. Il primo vagito, il dettaglio del cordone ombelicale appena reciso. Mani sconosciute misurano l’infante, lo lavano dagli ultimi residui di placenta. Il volto sfocato della madre in secondo piano osserva il neonato, del quale abbiamo solo – in primissimo piano – i piccoli piedi dalla pelle ancora raggrinzita. Piedi euforici. Impazienti. Come in danza. E – su uno sfondo nero – l’altra foto-memoria: la mano del neonato cerca e stringe l’indice della madre. Non serve altro. Il gesto spontaneo e ancestrale per eccellenza già da solo testimonia l’insistenza a cercare sempre e dovunque l’autentica bellezza.
Eve Arnold. Retrospettiva
Torino, Palazzo Madama (Corte medievale)
palazzomadama@fondazionetorinomusei.it
www.palazzomadamatorino.it
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