Kritika onpaper # 4 KunstArt12-Bolzano, 16-18 | 03 | 2012
Non è la prima volta che, confrontandomi con un artista, lo sento parlare di ritualità, con o senza rimandi religiosi, a proposito della propria pratica pittorica. Nel tuo caso tale “ascendenza” è fortemente connotata a livello di antropologia culturale, nel senso che il retroterra concettuale della tua produzione mi pare d’aver capito sia intimamente connesso a un ben preciso universo simbolico di riferimento. Illuminaci.
I riti che costituiscono il tempo zero dei miei dipinti si oppongono diametralmente ai rituali dettati dalle religioni istituzionali. I primi infatti prendono le mosse da un livello istintuale della conoscenza di sé, da un livello per così dire primitivo, che spesso rivela punti di contatto inattesi con la ritualità di culture lontane nel tempo e nel luogo. Tali somiglianze riportano all’esistenza di un patrimonio simbolico costruito nei secoli sulla base di motivazioni psicologiche condivise dai singoli individui e sempre più difficile da cogliere nella sua complessità ai giorni nostri.
Ti riferisci agli archetipi junghiani?
L’archetipo, nella lettura che del termine danno Jung e Lacan, mi affascina per la sua natura tessuta di cultura “bassa”, popolare ed intuitiva; inoltre l’immagine archetipica, procedendo parallelamente su di un duplice binario, fissa sul corpo, sulla materia organica, il segno di un dialogo, di un’evoluzione interiore…il che è molto vicino a ciò che sento di compiere nel mio quotidiano processo creativo.
Spesso ci si riferisce alla produzione di un artista nei termini di “ricerca”. Di là dal vecchio adagio in base al quale chi cerca trova, quali sono i connotati della tua ricerca?
Io cerco di individuare in me i punti minimi di frattura e di esercitare su di essi un controllo rielaborandoli attivamente nelle mie opere. La mia ricerca è esercitata dunque in modo iperpersonale sulla mia psiche, ma preferisco lasciare che sussistano molteplici livelli di lettura per i miei lavori. Non è certo necessario lavorare costantemente sull’autoanalisi per creare opere oneste, ma non riesco a sentirmi colpita da tante opere portate a termine con perizia glaciale e che non comportano minimamente il mettersi in gioco in primis dell’autore.
Secondo me hanno soprattutto un valore resocontativo autobiografico. Wittgenstein identificava la filosofia nel suo valore (auto)terapeutico, forse che anche l’arte visiva nel tuo caso assume (anche) una valenza in quanto terapia?
Credo che nel mio caso la valenza terapeutica risieda soprattutto nelle modalità del processo all’origine dei miei quadri, in parte di costruzione, in parte di distruzione. Come per chi è affetto da ipermnesìa ed è costretto a vivere con un surplus di memorie, l’esistenza nel presente può essere resa difficile da un carico eccessivo di legami con eventi negativi del passato: drammatizzare un punto di rottura attraverso un atto rituale e fissarlo poi nella pratica quotidiana della pittura mi rende possibile creare una distanza mentale da esso. Inoltre tutto il materiale documentativo che riguarda l’atto viene in seguito da me distrutto, e resta soltanto il quadro, come un unicum, reliquia di una sorta di rito di passaggio da cui è possibile proseguire con una diversa consapevolezza.
Cosa ti dà il disegno che la pittura non ti dà. E viceversa. Cosa consegni all’uno e cosa consegni all’altra.
I disegni a rapidograph su carta appartengono ad un mondo di sogno, o di incubo: sono aggregazioni organiche, bozzoli proteiformi in evoluzione, pervasi da un sottile erotismo, senza volto, senza identità. Condividono moltissimo con la mia pittura: l’ossessione per le strutture anatomiche, la visione del corpo come assemblage di frammenti, una certa claustrofilia, la trama dell’opera che a distanza ravvicinata appare come una rete di cellule e microrganismi. I disegni sono meno personali, sono le infinite possibilità dell’essere; ciò che è rappresentato sulla carta non può esistere se non come fertile e libero sfogo della mia mente.
I tuoi corpi sono utopistici: perchè?
I miei corpi non sono utopistici…sono piuttosto calati, imperfetti ed incompleti come sono, in una dimensione distopica. Seguendo il filo di un’altra etimologia di “distopìa” si ha il significato in ambito medico-scientifico di “Spostamento di un viscere o di un tessuto dalla sua sede normale”: anche questo è parte di ciò che ha luogo nelle mie opere e che trascende la fissità della nozione medica per aprirsi su di uno scenario immaginifico libero.
Touché. Utopia/distopia. Che cosa dà l’architettura anatomica rispetto all’architettura cerebrale. Lo spirito è corpo?
Tra ogni frammento anatomico raffigurato nel mio lavoro e i corrispettivi simbolici che esso inevitabilmente riporta alla mente di ciascuno c’è una vasta zona grigia all’interno della quale coesistono diversi livelli di lettura, sulla base del vissuto dell’osservatore. L’anatomia per me è una struttura duttile, umile, che parla sottovoce in toni dimessi e non profetizza nulla. Per il resto, posso dirti che nel momento in cui ho smesso di cercare di individuare le linee di demarcazione fra corpo, mente e spirito nella mia personalissima “zona grigia”, mi sono sentita infinitamente sollevata.
Progetti futuri?
Dalla fine di febbraio sono in mostra a Verona presso la galleria Melepere per Tanatosi e del sonno, a cura di Patrizia Silingardi e Sonia Schiavone; a marzo Reggio Emilia e di seguito Milano. Inoltre sto ultimando due progetti che mi riportano vicina ad un altro mio precoce amore, la musica: una cover art per un album di un noto musicista in prossima uscita ed una collaborazione con Gorgòn Magazine per un omaggio artistico a Diamanda Galàs.
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Enrica Berselli, pittrice e disegnatrice ossessivo-compulsiva, vive e lavora immersa nel tempo dilatato di vecchi audiolibri in una casa nei pressi di Modena in compagnia di quattro silenziosi famigli.
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