Articolo pubblicato su Kritika onpaper # 4 KunstArt Bolzano, 16-18 | 03 | 2012
Ludwig Wittgenstein paragonava la parole alla cassetta degli attrezzi. Era il cosiddetto “secondo Wittgenstein”, quello delle Ricerche filosofiche e della produzione successiva al Tractatus logico-philosophicus, quando, detto alla carlona, il linguaggio non era più visto dal (non) filosofo austriaco come un’entità non meglio definita della cui essenza andare alla ricerca, ma uno strumento la cui caratteristica precipua era la funzionalità.
Ma spesso non si deve buttar via il bambino insieme all’acqua sporca. Quando il giovane Wittgenstein (giovane, perché scrisse il suo Tractatus logico-philosophicus fra i venticinque e i trent’anni d’età) diceva che il senso era una cosa e il significato un’altra, diceva una gran lapalissiana verità.
Sulla scorta del povero Gottlob Frege, logico matematico burbero e incazzato col mondo che si vide sputtanare dal giovane Bertrand Russell, Wittgenstein affermava che il senso di una proposizione altro non era che la sua verità o falsità, mentre il significato, non della proposizione ma dei termini in essa coinvolti, era l’oggetto da essa denotato. Insomma, il significato della parola “gatto” è l’oggetto per cui essa sta, il gatto appunto. Di converso, il senso della proposizione “il gatto è sul tavolo” è il suo valore di verità, che dipende dal fatto se il gatto stia o non stia sul tavolo. Insomma, il vecchio arnese della teoria corrispondentista della verità, per cui per predicare il valore di verità di una proposizione basta aprir la finestra e guardare fuori.
Del resto, una delle più importanti speculazioni nell’ambito dell’area filosofica di tradizione analitica sul linguaggio si intitolava Parola e oggetto, di Willard Van Orman Quine, dove il filosofo americano affrontava, ma vah, il problema del significato linguistico.
E la questione del significato rientra nel settore delle arti visive, non tanto e non solo perché serve a rispondere alla domanda «Cazzo è ‘sta roba?» quando ci troviamo di fronte agli occhi un’opera di Anish Kapoor, ma anche e soprattutto per collocare un’opera d’arte a livello sia epistemico che ontico (nel senso, come la conosciamo e dove la mettiamo).
Pippe mentali? No: prendete le celeberrime Brillo Box di Andy Warhol e provate a giustificare la differenza che passa fra le SUE Brillo Box e gli analoghi e identici scatoli in uso nei supermercati dell’epoca. Sono cazzi da cagare, senza un valido supporto teoretico.
E’ ovvio: lo statuto di un’opera d’arte è cosa nostra, in quanto siamo noi a conferire ad essa un significato che la rende tale. Un pisciatoio resta un pisciatoio anche se esposto in un white cube, ma nel white cube siamo su un altro terreno di gioco.
Ecco perché, di fronte all’espressione indessicale (nel senso, io indico col dito la tal cosa)
«Questa è un’opera d’arte», la risposta vera o falsa discende da una scorribanda momentanea nei territori di quella funzionalità del nostro linguaggio, di cui abbiamo parlato poco sopra a proposito di Wittgenstein.
Senza contare che l’arte visiva E’ un linguaggio. Così come linguaggio è una data disposizione d’oggetti sul tavolo, ad esempio. Naturalmente l’arte visuale è un linguaggio i cui elementi non sono le parole, ma specifici mezzi espressivi che il critico di turno ha la ventura (o la capacità) di sviscerare ponendosi in medias res fra artista e pubblico. ‘Chè l’artista, per fortuna dei critici (i quali altrimenti sarebbero costretti a cercarsi un lavoro) soffre frequentemente di afasia concettuale e non sa che cazzo dire della propria opera.
Torniamo a bomba sugli oggetti, l’altro corno del dilemma. Dicevamo che l’oggetto è il significato di un termine. Ma gli oggetti sono anche pregni di una certa cosalità che non solo li determina come l’arredo cositutivo del mondo insieme alle persone (nel senso, di cosa è fatto il mondo? di due cose: oggetti esperiti da un lato e soggetti d’esperienza dall’altro, insomma cose e persone), ma li determina altresì come referenti della corporeità.
Due cose. La prima: è inespugnabile l’assunto in base al quale il corpo proprio è il punto zero dell’orientazione spaziale. Cos’è lo spazio? Semplice, signora mia: lo spazio è il dinamismo della lontananza. Lo spazio è ciò che io realizzo muovendomi: spostandomi, porto con me la mia stessa sagoma ideale, che è un luogo, e con essa dipingo lo spazio realizzandolo col movimento del mio corpo.
Seconda: ogni cosa ha la sua cosalità. Perché Giorgio Morandi non s’è mai rotto i coglioni nel dipingere per tutta la vita la stessa cosa, nella fattispecie bottiglie? Perché, raffigurando una bottiglia, non riffigurava QUELLA bottiglia in particolare, bensì la sua bottiglità.
E la bottiglità altro non è se non l’intima essenza della cosa: la cosalità, appunto. O l’ecceitas, come diceva Duns Scoto.
Sembra incredibile che una cosa tanto astratta quale la cosalità si possa determinare con una cosa tanto concreta come il corpo. Eppure è così e ce l’hanno insegnato proprio i pittori, Paul Cézanne e Pablo Picasso nella fattispecie, via, senza saperlo, Edmund Husserl, il quale in un’epistola indirizzata all’amico poeta Hugo von Hofmannsthal insisteva sulle recondite armonie fra la pratica derealizzante dell’artista e l’intravisione noetica del filosofo: facciamo due mestieri diversi, ma perveniamo alla stessa meta. Paul Cézanne diede il la con la sua Montagna Sainte-Victoire e Picasso fece il resto, dipingendo la cosa nella sua plurima prospetticità. La cosa, da TUTTI i punti di vista, in un colpo solo: il kantiano noumeno, l’intima essenza del mondo, la cosa in sé indipendentemente dalle nostre facoltà conscitive, la cosa così com’è a prescindere, come direbbe il principe De Curtis. La cosalità della cosa.
Quando mi sono imbattuto la prima volta nella produzione della pittrice Enrica Berselli confesso d’aver avvertito quella sensazione di spaesamento ci cui si parla e si abusa nei comunicati stampa e in altra documentazione a proposito degli artisti i più varii. Questi fanno una cosa strana, un dipinto strano, e subito scatta a detta dell’estensore “il senso di spaesamento” occasionato nel fruitore dall’osservazione di detti quadri. Quale sia questo “senso di spaesamento”, poi, non è dato sapere, ma chi se ne fotte, Franza o Spagna purchè se magna.
I quadri di Enrica Berselli non dovrebbero, a rigore, rientrare nella categoria: sono realizzati con tale acribia che noi, con questi quadri, c’intendiamo. I soggetti sono molto familiari, no? E le resa, sia formale che materiale dei medesimi, non lascia nulla d’intentato: ne abbiamo una conoscenza, diretta o indiretta poco importa, ma sappiamo che qui si respira un’aria di famiglia. Eppure, c’è qualcosa di strano, eh eh, che non ci torna. Un po’ come quel qualcosa che Sam Dalmas, il protagonista interpretato da Tony Musante nel film L’uccello dalle piume di cristallo diretto da Dario Argento, non riesce a focalizzare al fine della visione chiara dell’assassinio (avvenuto in una galleria d’arte!) cui ha assistito in prima persona.
Con Enrica Berselli abbiamo a che fare con cose e corpi trasfigurati nell’ascensione laica di un’atea devota. Qui, l’oggetto è votato a una precarietà ontologica e il senso a una connessione (con la realtà, do you remember la teoria corrispondentista di cui sopra?) verofunzionale multisfaccettata.
Nella produzione di Enrica Berselli c’è questo enigma senza fine, che ha la stessa funzione di quel “MUTT” che Marcel Duchamp scrisse o fece scrivere sul suo cesso capovolto.
Leggi anche Enrica Berselli. Intervista kritika
Enrica Berselli, pittrice e disegnatrice ossessivo-compulsiva, vive e lavora immersa nel tempo dilatato di vecchi audiolibri in una casa nei pressi di Modena in compagnia di quattro silenziosi famigli.
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