Nella produzione d’arte il circolo autoreferenziale è un pericolo pressante: se è vero, come è vero, che l’artista non può non essere – anche – un po’ narciso e l’opera artistica è sempre – anche – un’autobiografia, l’esibizione dell’Io e del corpo proprio nelle arti visuali – e nella performance e nell’autoscatto fotografico in special modo – contiene in sé il rischio del fotoromanzo. L’artista dovrebbe astenersi dal parlare (troppo) di sé, solo Nietzsche poteva concedersi il lusso di largheggiare con la prima persona singolare – e infatti era un pessimo musicista.
Eleonora Manca è una giovane artista (Lucca,1978) che, attraverso il mezzo della fotografia e del video – e della carta -, ha fin da subito prese le distanze da quella logopedia identitaria che nelle arti visive – e nella fattispecie in quelle produzione artistiche dove il corpo, la corporeità e le scorribande sull’Io sono l’alfa e l’omega – conduce dritto dritto alla clinica della – posticcia – salvazione del sé. I sanatori sono per i tubercolotici e il valore dell’arte non è quello terapeutico.
Ciò non toglie che l’arte visuale sia la dimensione privilegiata, non solo della pura e semplice bellezza dell’immagine che con la sua irresistibile esuberanza ci spinge a volerla possedere per il solo fatto del suo esser/ci, ma anche il luogo prediletto della ostensione di quei sommovimenti interiori belli e brutti che possono essere – nel senso della possibilità di – anche le nostre cicatrici.
L’arte è uno specchio e se noi non vi ci vediamo riflessi – anche – in quelle misure le più soggettive e personalistiche che appartengono alla nostra privatissima biografia, allora non serve a un cazzo: come disse il compianto Luciano Inga Pin, l’arte è fedeltà al presente. Punto.
Eleonora Manca è un’artista visuale dal sottoscritto presentata in occasione di una collettiva presso una galleria milanese, ciò che può generare l’impressione che a KritikaOnline ce la suoniamo e ce la cantiamo. E’ vero. Siamo garibaldini e la correttezza politica ci è da sempre a noia.
Cara Eleonora, nella tua opera fotografica e video il corpo svolge un ruolo di fondamentale importanza, non solo a livello di impatto retinico ma anche concettuale. D’altro canto non manchi di sottolineare come la fisicità, nei tuoi lavori, sia altra da qualsivoglia indagine e/o estrinsecazione di quello che alla fine risulta essere il proprietario assente del suo/tuo corpo, l’Io appunto. Ma se, come affermi, il tuo corpo è “predatore del proprio sé”, in che senso avviene questa estrusione dell’Io dal suo/tuo corpo? O forse dobbiamo intendere delle distinzioni fra Io e Sé, l’uno eminentemente psichico e l’altro più “fisico”, quindi un proprietario, un marcatore resocontativo e biografico, tutt’uno con la tua fisicità?
Caro Emanuele, Je est un autre dice il sommo Arthur. Ciò che nasce dai miei lavori è un’immagine di me. Setacciata dal mezzo che scelgo di utilizzare, dalla post produzione, dalla luce. Io è sé e sé è io. Io non è sé e sé non è io. L’io mi sta ampiamente antipatico. Il sé – semplificando – è ciò che salvo dell’io. Ma poi comincia a seccarmi anche il sé e così ricomincio a saccheggiare. Alcune volte ho la somma grazia di vedere entrambi dinnanzi a me. I lavori che considero migliori, fra i miei, sono nati in questi momenti. Al confine. Sul crinale. Nell’attimo di una distrazione. Quando il trono era vuoto, ma nessuno aveva ancora abdicato. Non mi interessano i pungoli da tomo psichiatrico, non me ne faccio niente dell’ego. Basta con l’ego. Con l’esibizionismo nella foll(i)a del mercato settimanale. Col mettersi in mostra, in posa. Con la volgarità del “mi faccio vedere perché voglio vedermi”. Io non ho bisogno di guardarmi, io “utilizzo” il mio corpo. C’è una sottile differenza. Io sto dietro allo specchio, ma non per sottrar(mi) alla vista, bensì per svellere ogni dettaglio che dinnanzi allo specchio verrebbe meno. Io mi dipingo. Carmelo Bene, Artaud, Sartre, Vladimír Holan, Laforgue. I miei maestri sono (anche) loro. E parlano di assenza. Assenza come intimo nutrimento d’ogni essenza.
Nei tuoi lavori di fotografia è sempre presente una forte pittoricità: volumetrie plastiche, pieghe e dettagli dell’anatomia. Tu che miri alle recondite armonie parola/immagine, vuoi illuminarci sul senso in cui ci parlano questi…”valori plastici”?
Provengo dalle arti figurative. Ho disegnato e dipinto per anni. E per anni ho fatto la modella di nudo in Accademia riuscendo a studiare il lavoro dei pittori che venivano a ritrarmi. Sono stati anni molto rivelatori perché mi hanno permesso di comprendere appieno quanto sia meraviglioso e definitivamente insondabile il corpo umano, indipendentemente da come esso sia. Sentir parlare di me non come mero agglomerato materico, ma come sintesi di linee e curve e piani mi ha permesso di intraprendere un lavoro sul mio corpo. Un privilegio che considero sacro. Il mio corpo lo studio continuamente. Mi interessano i nervi, le ossa, i piani più morbidi. Mi interessa il corpo frazionato. Visto nella sua interezza attraverso i particolari. Sono i particolari che rendono un lavoro interessante. Lo scarto di un corpo integrale ha sempre da dire molto di più perché intuisci le pieghe, la carne, il viaggio della pelle. La tensione di un movimento esasperato e protratto sino a sentirne il dolore. La poesia di un corpo nello stato di riposo, abbandono. La percezione tutta nervi di un “corpo cosciente” (parafrasando Mejerchol’d) e al contempo in-cosciente.
Passiamo all’opera video: ti chiedo se (e in quale misura) si determini quello che potremmo definire lo scarto epistemico (perché l’arte è SEMPRE conoscenza) fra il mezzo fotografico e il mezzo video. Cosa ottieni dall’uno che non otterresti dall’altro?
Li considero complementari. Esistono “storie” che hanno bisogno di dipanarsi con immagini in movimento e altre che hanno invece bisogno dell’immediatezza della foto. In qualche modo considero la foto più spietata, più diretta o – se mi è concesso – più stronza. Il video mi fornisce il modo di essere più paziente, tollerante, generosa. Dalla foto mi aspetto, invece, il “tutto e subito” , ma non sempre accade e così inizia l’estenuante lotta. Ma il processo di conoscenza vi è in entrambi i mezzi, solo che differisce in sfumature difficilmente spiegabili.
Sei attualmente impegnata nel tuo progetto Tessere Memoria. E riguardo alle interconnessioni verbovisuali di un lavoro d’arte, mi hai anticipato la possibilità di un’isola, perdono, la possibilità di un secondo progetto artistico in cui il racconto sia composto di disegni e fotografie intrecciati a parole: vuoi/puoi darcene un’anticipazione?
Esistono disegni inorganici, di corpi spezzati, come sopravissuti ad un’autopsia. Lembi di carne che divengono un abito, ossa in tralice. La bellezza di una struttura forte che emerge dalla pelle. Una specie di neo vanitas che però ha tutto il sapore di una metamorfosi anche vitale. Della memoria del corpo. Esistono le mie foto che parlano di muta e di ricordo. E poi esistono i miei quaderni, i miei diari, le frasi che scrivo in continuazione e che considero prolungamento d’ogni mio progetto. Parole che dicono del dolore che ogni metamorfosi reclama; del benedire ogni cicatrice. Nella logica di un progetto dove parola e immagine riescano a incorporarsi credo che potrebbe essere un cortocircuito interessante. Una specie di storia che si dipana in orizzontale con la bobina di un vecchio film. Stralci di memoria affidati a segni. Un accaduto raccontato sottovoce.
Questa è una domanda che da sempre vorrei fare agli artisti che lavorano col corpo: scusa, perché lo fai? Tu non sei wittgensteiniana, quindi per te filosofa e arte non sono terapeutiche. Ergo?
Ergo dovrei lavorare sul (mio) corpo solo se vi fossero esiti terapeutici? Se desiderassi questo probabilmente andrei in analisi . L’arte come terapia m’è in odor di pestilenza (non artaudiana) e lavoro su-con il mio corpo perché sono onesta. Perché mi interessa il corpo e anziché andare a prendere in prestito il corpo di altri lavoro sul mio, cosciente che posso mandarlo a quel paese se non reagisce agli stimoli che gli chiedo, cosciente che è il mio “strumento” perché lo conosco quanto basta. Lavorare con il corpo è un processo molto intimo. Bisogna esecrare il (proprio) corpo a tal punto da amarlo incondizionatamente. Ci va impegno. Dedizione. Non si improvvisa un lavoro sul proprio corpo, soprattutto se come me si pensa che anima e corpo siano figli della stessa opus. È un dialogo instancabile. Diane Arbus ha creato degli splendidi ritratti, ma benché non si separasse mai dalla sua macchina fotografica riusciva a ritrarre il soggetto scelto dopo una lunga, lunghissima conoscenza. Non avrebbe mai potuto scattare al primo incontro.
Una cosa che mi sarebbe sempre piaciuto fare è vedere un’artista (ad esempio un pittore) di fronte alla tela bianca: i suoi primi movimenti. Solo una volta mi è stato concesso questo privilegio (da un pittore, appunto. Ma eravamo/siamo molto amici ed io ero un habituè del suo studio). Come prende l’avvio, fisicamente, un lavoro inedito di Eleonora Manca? (sempre che questa non sia informazione da riservarsi solo agli iniziati).
Qualsiasi tipo di lavoro che intraprendo – video, foto, scrittura – necessita che prima sia in grado di “vederlo”. Vederlo cioè davanti a me, come altro-da-me. Come in una specie di estasi, visione. Magari sento che voglio dire qualcosa che però mi sfugge…così…in qualche modo rimango in balia dell’idea. Possono passare anche molti giorni e poi – eccola – l’epifania; l’epifania che mi fa prendere la mia Reflex Lady, intuire la luce che in qual momento mi parla di più e cliccare su “autoscatto”. Solo alla fine mi rendo conto di cosa è venuto fuori. E solitamente ci sono sempre degli accenti ai quali non avevo pensato ed è sempre interessante scoprire quello che è accaduto. Per il video il discorso è un po’ più complesso. In genere disegno dei momenti, compilo una scaletta delle “scene” che vorrei girare. Alcune volte esiste anche una specie di sceneggiatura. Altre mi ritrovo a voler imprimere dei movimenti che poi posso utilizzare anche molto tempo dopo, ma che in quel momento sento di dover “fissare”. Così, ad esempio, è successo con Memory Body. Le riprese risalivano allo scorso anno, ma solo quest’estate ho capito che cosa volevano dir(mi). E così ho montato il video e lo considero un video molto importante perché nel periodo delle riprese avevo dei dolori cronici paralizzanti che non ho voluto dimenticare e che sono confluiti nella poetica della metamorfosi: substrato d’ogni mio lavoro.
Obiettivi?
Spellarmi.
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