A Torino, al Castello di Rivoli, è di scena Disobedience Archive (The Republic) e il titolo contiene il concept di una mostra itinerante da dieci anni, irriverente, disubbidiente, complessa e impegnata, che mette a confronto le ricerche e le agitazioni culturali post 1968, passando dall’attivismo politico e sociale dell’epoca global alle insurrezioni odierne del Medio Oriente: l’arte, quando è “anarchica” e si oppone al potere, dà forma a linguaggi innovativi. Marco Scotini, autorevole critico, curatore indipendente, docente e direttore del Biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano, ha ideato dal 2004 un progetto ambizioso esposto per la prima volta a Berlino e pensato come un dispositivo del pensiero critico: un archivio in progress di documenti audiovisivi esposto in modo originale, dialettico, che si arricchisce di contribuiti inediti a ogni tappa espositiva.
Il curatore in questa intervista racconta come questo progetto inventariale nasca non con l’obiettivo di ricostruire una storia, ma con l’intento di archiviare e de-archiviare esperienze e suggerire nuovi possibili scenari.
La mostra Disobedience Archive (The Republic) in corso al Castello di Rivoli a Torino è molto complessa per le tematiche e per l’allestimento, ci vuole spiegare di che tratta e quali sono i gli argomenti affrontati?
Sicuramente è un format inedito per l’Italia. La mostra raccoglie opere d’arte assieme a documenti originali, ephemera, video e pubblicazioni di diversa natura, trattando tutto in maniera orizzontale e sovrapponendo continuamente la natura degli uni e degli altri. Nella prima sala una serie di opere del ’76 realizzate dal Laboratorio di Comunicazione Militante ci interroga sulla natura della cronaca dei quotidiani del tempo. Vengono messe a confronto nature morte cézanniane con arsenali militari, composizioni suprematiste con foto segnaletiche. Quale è il confine tra l’arte e il documento quando quest’ultimo si rivela sempre più artefatto? È con questa domanda che ci introduciamo in due sale parallele che fanno da avancorpo a una struttura parlamentare circolare (e frammentata in tre sale) di quasi 30 metri di diametro. Nelle aule parlamentari questo tipo di sala prende il nome di Transatlantico o Sala dei Passi Perduti. Con Céline Condorelli abbiamo pensato a una struttura espositiva fatta di vetrine per centinaia di documenti e di scranni per i monitor che raccolgono oltre cinquanta film. Le pratiche documentarie hanno rappresentato la tendenza più complessa e più significativa degli ultimi due decenni e molte forme di cinema sperimentale e militante sono raccolti proprio qui, nel cuore dell’esposizione. Sono esposti film di Harun Farocki, Black Audio Film Collective, Hito Steyerl, Ashley Hunt, Eyal Sivan, Angela Melitopoulos, ecc. ma anche di Alberto Grifi, di Gianfranco Baruchello e del primo Collettivo Femminista di Cinema italiano del’73. Questi si trovano al posto dei tradizionali rappresentanti politici e, rifiutando il concetto di rappresentanza, mettono in scena forme di auto-rappresentazione o rappresentazione diretta così come si parla di “azione diretta”. Questa del Parlamento è però solo una delle tante conformazioni che l’archivio ha assunto in questi anni. L’archivio è sempre contingente, in divenire, qui e ora, sempre pronto ad essere dearchiviato e rearchiviato. Chissà cosa sarà in futuro!
Come è nata l’idea della mostra Disobedience e quali obiettivi si pone la mostra?
Nel 2004 fui invitato a pensare un progetto per Berlino che presentasse soprattutto dei lavori video. Il contesto era giusto per una mostra in chiave politica e allora c’erano solo due precedenti: un’esposizione curata da Tone O. Nielsen a Los Angeles e l’altra da Nato Thompson al MASS MoCA. Con l’aiuto di Andreas Broekmann riuscii in breve tempo a raccogliere molti materiali. Recentemente Will Bradley ha detto che si trattava di una mostra punk! Dopo molti anni e diverse tappe Disobedience è ora molto cambiata e riconosciuta come una delle mostre storiche del nuovo trend politico di biennali e seminari in giro per il mondo. Ma l’obbiettivo era allora quello di rompere con le esposizioni di arte relazionale in voga a quel tempo e creare una vera tool box pronta per l’uso.
Ogni stanza contiene diverse aree tematiche: con quale criterio sono state individuate? Secondo lei quale è la più attuale, che apre riflessioni sulla nostra cultura glocal?
Non c’è, da questo punto di vista, una sezione che prevale sulle altre. Ci sono alcune sezioni che non rappresentano un tema ma hanno un ancoraggio locale, fanno parte di una geopolitica significativa. Mi riferisco alla sezione dedicata all’Argentina, a quella sul dissenso arabo e all’altra sulla disobbedienza nell’Europa Est. Potrei aggiungere tutte quelle pratiche molecolari, minoritarie ma istituenti raccolte nella sezione Reclaim the Streets: che vanno dal viaggio di John Jordan e Isabelle Fremeaux verso un’ipotetica Europa post-capitalista fino agli interventi sul quartiere Garibaldi-Repubblica di Milano con Isola Art Center.
Con la fine della Guerra Fredda, la caduta del muro di Berlino (1989), la rivoluzione informatica e digitale, l’omologazione massmediale, si conclude il periodo di un’arte politica impegnata, definita del dissenso. Secondo lei, nel presente, quali sono i caratteri dell’arte politica, se ce n’è ancora una?
Credo che proprio la parola “disobbedienza” raccolga tutti i caratteri di questa nuova forma di pensare la politica e l’azione sociale. In questo caso la politica è imprescindibile dalla dimensione estetica: ha bisogno di sperimentazione, immaginazione, emancipazione. La disobbedienza di per sé non è una forma di militanza. Non c’è un’organizzazione che si richiama a una struttura consolidata, a monte e predefinita. Nella disobbedienza non c’è tanto l’applicazione di una linea politica, di un piano ideale ma c’è sempre l’intelligenza concreta della situazione in cui intervengono delle soggettività qualsiasi. È sempre la creazione di una possibilità alternativa che sfugge ai codici. Non è questa la condizione anche dell’arte?

Disobedience Archive (The Republic) – Castello di Rivoli, Torino – Veduta della mostra
La mostra è itinerante dal 2004: perché avete scelto il Museo del Castello di Rivoli a Torino e non un altro museo italiano?
La mostra ha già attraversato diverse istituzioni espositive tra cui il Van Abbemuseum, Nottingham Contemporary, Raven Row di Londra, l’MIT di Cambridge e il Bildmuseet di Umeå. Credo che il Castello di Rivoli sia il museo più importante nel contesto italiano, dove avevo già collaborato con Carolyn Christov-Bakargiev alla grande mostra dedicata a Gianni Colombo nel 2009, e dove adesso Beatrice Merz mi ha invitato a mostrare l’Archivio. Abbiamo pensato che Torino, con le sue lotte operaie e i suoi movimenti artistici, fosse lo sfondo ideale per Disobedience.
Come è stata accolta dal pubblico e dalla critica la sua mostra?
All’inizio, nel 2004-2005, le mostre del genere si contavano sulle dita di una mano, oggi sono diventate una vera e propria tendenza, anche se questo non è vero per l’Italia. Basta guardare l’ultima edizione della Biennale di Berlino e Documenta 13! Un teorico come Gerald Raunig ha posto Disobedience tra le mostre che hanno fatto questo tipo di storia. Negli anni se ne sono occupati critici del calibro di Hal Foster, Charles Esche, Martin Herbert e tanti altri in molte riviste. Non so quanto in Italia la mostra sarà capita ma ormai il pubblico dell’arte sta cambiando anche da noi e Disobedience è aperta a tipi diversi di pubblico. La cosa più interessante dietro questo progetto è comunque il tipo di network che negli anni la mostra è riuscita a creare per cui è servita come piattaforma d’incontro e dibattito, accrescendo sempre più il numero dei partecipanti.
Perché ha scelto un allestimento multimediale?
Non si tratta tanto di un allestimento multimediale anzi, si è preferito ricorrere a una tecnologia vintage, con degli Hantarex ormai quasi introvabili. Però questo è un importante tassello della mostra perché i monitor ci rimandano continuamente agli anni Settanta in cui nasce questo tipo di utilizzo dei mass media come strumento di arte e come strumento di lotta.
Il 1968 nell’arte, nella cultura è stato un anno che ha aperto un decennio di contestazione: è stato definito di rottura, ma secondo lei, a distanza di tempo, con il necessario distacco critico, quale eredità hanno lasciato le seconde avanguardie storiche agli artisti contemporanei e come sono state declinate alcune tematiche politico-sociali?
Se un’eredità c’è stata questa non è consistita tanto nel consolidarsi in quella che noi oggi leggiamo come arte d’avanguardia ma, al contrario, nella fuoriuscita da questa. Prendiamo la prima sala della mostra, quella sugli anni Settanta, in cui si vede che Balestrini esce dalla letteratura, Godard dal cinema, Gilardi dall’arte, la Lonzi dalla critica, Baruchello dalla città e il Living dallo spazio del teatro in favore dello spazio urbano: un esodo costituente in cui non si tratta tanto di negare qualcosa ma di affermare una possibilità radicalmente alternativa che l’avanguardia di quegli anni non contempla. Come diceva Gilardi nel ’70, si trattava di “condurre simultaneamente l’esperienza politica a quella artistica, senza che l’una subordini l’altra e senza abbandonare l’una per l’altra: solo in questo modo esse possono compiersi, non importa quando, e unificarsi nell’utopia diventata realtà.”
Perché l’arte è ancora politica?
L’arte è sempre politica, dipende ogni volta da che parte sta. Vorrei terminare con Benjamin e la sua alternativa tra estetizzazione della politica e politicizzazione dell’arte.
Disobedience Archive (The Republic)
a cura di Marco Scotini
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea
piazza Mafalda di Savoia, Torino
www.castellodirivoli.org
No comments